Scherza Gianni Anguilletti, regional manager Italia Turchia Israele e Grecia di Red Hat, il giorno dopo l’annuncio dell’acquisizione di Red Hat da parte di IBM per 34 milioni di dollari. “Continueremo ad avere il logo rosso e non blu” esordisce davanti ai 1.600 partecipanti del Red Hat Open Source Day di Milano e strappa un applauso, confermando il colore che contraddistingue la cultura di Red Hat e la visione dell’open source. “Credo che l’intenzione sia quella di creare un polo nel quale Red Hat manterrà la propria autonomia operativa ma ancora più importante dei dettagli organizzativi è il fatto che entrambi le aziende mettono al centro del proprio operare il cliente – precisa -. Nelle scorse ore ho cercato il modo di esprimere il valore dell’acquisizione. Ci provo con un’analogia calcistica: in una squadra che ha solidità, esperienza, abilità di giocare ad altissimi livelli su più fronti, sono stati innestati giovani talenti, ambiziosi, creativi, incoscienti per arrivare a una squadra con tutte le caratteristiche per dare maggiore successo alle trasformazioni dei clienti”.
Un messaggio di complementarietà ma anche di continuità con il lavoro che ha visto Red Hat ampliare la propria strategia, dopo le origini completamente legate a Linux e al mantra open source, fino a middleware e virtualizzazione, per arrivare a una proposta di uno stack infrastrutturale completo per creare data center software-defined. “Siamo partiti con Linux ma non ci si siamo fermati li” precisa.
“Abbiamo continuato ad investire significativamente in evoluzione tecnologica, sviluppo di servizi e tecnologie lungo tre direttrici strategiche” incalza Angueletti. La prima riguarda la completezza funzionale dello stack infrastrutturale, offrendo tutto il necessario per gestire la piattaforma scalabile; la seconda è l’apertura della piattaforma, ovvero fare in modo che i clienti siano liberi di scegliere lo stack infrastrutturale nella sua interezza o solo in alcuni suoi complementi senza essere penalizzati. La terza, la flessibilità che porta all’open hybrid cloud: “Any application, any container, anytime, anywhere. La nostra strategia permette ai clienti di spostare un container in qualsiasi momento del ciclo di vita senza essere costretti a dover fare attività pesanti di ridefinizione del codice per salvaguardare performance e elasticità” precisa il manager.
Sguardo internazionale
L’evento milanese “nato per scambiare idee” tocca tematiche da Linux a container, application cloud native, IoT, IT modernization, via via fino a Linux management, devops, open hybrid cloud, insight, openstack… in una logica di confronto con gli sviluppatori. “We grow when we share, cresciamo quando condividiamo” precisa Anguiletti, supportato da Michel Isnard, vicepresidente sales Emea. “Digital transformation e open organization vanno di pari passo, la prima si realizza grazie alla seconda”.
Se il fulcro della presentazione di Isnard lo scorso anno era “Technology, Process e People” oggi è “Configure, Enable e Engage” dove l’open source rimane la fonte dell’innovazione tecnologica ma per portare il software in modo agile e sicuro nei processi di trasformazione delle aziende servono lo stack infrastrutturale, le idee dei partner, la loro esperienza e la conoscenza sul campo. “Tutto è powered by opensource – precisa Isnard -, non c’è modo di fermare l’innovazione, che riguarda l’interoperabilità, milioni di progetti, in un mondo multicloud e ibrido. Se in passato le aziende erano legate a piattaforme di IBM, Sun, HP oggi offriamo le stesse tecnologie via software, negoziando migliori servizi e soluzioni. Oggi si parla di multicloud, di Softlayer, Microsoft Azure, Amazon Web Services e Google Cloud Platform che gestiscono quello che prima gestiva l’hardware. Ma non stiamo parlando di sole tecnologie ma di cultura”.
La cultura. Di fatto le aziende clienti devono essere guidate in un cambiamento di mindset per evitare che passino da soluzioni proprietari legacy tipiche del passato a soluzioni legate a un singolo hyperscaler, senza tener conto che il mondo va verso ibrido e multicloud. “Red Hat non sarebbe Red Hat senza una sua cultura forte e la volonta di evolvere“, afferma Isnard, ricordando quanto nei sui 25 anni di storia abbia stravolto il mercato IT, “come ha fatto poi Amazon nel business retail – esemplifica -. Dieci anni fa, prima di Tesla, noi eravamo un’azienda disruptive per il mercato informatico. E il mercato stesso ha vissuto differente fasi nell’open source, basti vedere come è cambiato l’atteggiamento scettico di Microsoft con le dichiarazioni a favore dell’open source da parte del ceo, Satya Nadella”.
Un’apertura che potrebbe riguardare molto aziende: i dati confermano che il 90% delle aziende è ingaggiata in qualche progetto di digitalizzazione ma solo il 19% ha una strategia per scalare.
Organizzazione aperta
Nell’ottica di supportare meglio questo passaggio, in Red Hat Italia continuano gli investimenti in persone e in competenze, “necessari per seguire clienti nel loro percorso di trasformazione digitale” contando oggi 150 persone, la maggioranza ingegneri. “In un mondo che si muove sempre più per specializzazioni, è fondamentale essere in grado di parlare il dialetto degli interlocutori, che cambia se sono profili del finance, della PA o delle Telco. Manteniamo le nostre radici continuando a sviluppare nell’eccellenza tecnologica, altamente specializzata sull’innovazione e sulle specificità di ogni singola impresa, ma oltre ai mattoni tecnologici ricerchiamo nuove competenze, aprendo agli sviluppatori e alle startup per poter dialogare in modo corretto con tutte le industry”.
L’idea della collaborazione e della condivisione sono driver anche del technology team di Red Hat: “Ognuno ha il diritto di dire tutto quello che pensa in azienda in un modello di open organization che promuove la trasparenza, la collaborazione, la condivisione di problematiche – precisa Isnard –. Crediamo che una organizzazione aperta (teorizzata anche da Jim Whitehurst, Ceo di Red Hat) sia il migliore modo per lavorare, perché l’organizzazione aperta è bottom up, mentre le organizzazioni convenzionali sono top down”.
Un approccio culturale sul quale Red Hat ha impostato la sua crescita, e che non dovrà venire a meno con l’acquisizione da parte di IBM .
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