Da anni si parla dell’introduzione dell’informatica a supporto dell’innovazione dei processi di business. Da anni si ragiona su come inserire le telecomunicazioni all’interno di processi di trasferimento di documenti complessi. Da anni il Business chiede ai Sistemi Informativi di risolvere problemi che ne rallentano l’operatività.
E da anni si dibatte sul ruolo del CIO che soffre di mancanza di “business alignment”, viene etichettato come incapace di cogliere l’essenza dei problemi e di trovare le giuste soluzioni che permettano ai colleghi che si interfacciano con il mercato di lavorare meglio, aumentando efficienza ed efficacia.
Per una volta vogliamo metterci dalla parte dei Cio e, facendo tesoro di recenti esperienze di progetti Digital Transformation, interpretare le difficoltà a cui sono chiamati, soprattutto quando la tecnologia implica un impatto di cambiamento nel modus operandi consolidato.
Il caso in esame riguarda un comparto tradizionale all’interno del variegato mondo dei servizi di logistica, in cui, a fronte di un processo di espansione tramite acquisizioni, emerge forte e chiara l’esigenza di omogeneizzare le procedure e i sistemi informativi a supporto.
Il management della holding percepisce senza troppi dubbi la necessità di snellire almeno una parte dei processi operativi – condotti da sempre in modo estremamente tradizionale – attraverso l’introduzione di semplici strumenti informatizzati, ma basati sull’utilizzo di device che ormai sono stabilmente nelle tasche di qualunque persona, indipendentemente dal ruolo ricoperto e dalla funzione svolta.
Il business case si presenta fattibile come di rado accade: investimenti estremamente limitati e azioni ripetitive che possono essere incasellate in semplici operazioni gestite da menu a tendina che permettono di recuperare dai data base moltissime informazioni con un singolo click. L’alternativa, la consuetudine, è rappresentata da moduli cartacei (!), da compilare manualmente con una miriade di dati e, successivamente, da inputare nei sistemi.
Tuttavia, la fase di discussione successiva all’analisi dei “processi” preesistenti, non si focalizza su come e quando implementare l’innovazione ma piuttosto su come far accettare agli addetti coinvolti un cambiamento rispetto ad un’attività che “è sempre stata fatta compilando a mano i moduli”. Si obietta che le persone non possono essere chiamate ad operare un salto quantico arrivando ad utilizzare uno smartphone o un tablet per digitare su una tastiera virtuale o selezionare un nome (e i relativi dati di anagrafica) o un articolo da un elenco preimpostato ed esaustivo che richiede pochissimo tempo ed elimina la maggior parte degli errori possibili.
I manager (?) delle aziende acquisite si ergono a difensori dello status quo, paladini della tradizione che non può essere soppiantata da tecnologie disruptive e, per risultare più convincenti evocano rischi epocali di “mancata fatturazione” (e quindi mancati incassi per gli innovatori) per periodi non prevedibili ma probabilmente lunghi, affinché il nuovo modello si possa affermare.
Ovviamente, alle persone potenzialmente coinvolgibili in questo progetto di Digital Disruption non è stato nemmeno messo in mano un device con un’applicazione specifica per poter valutare direttamente i benefici o i malefici dell’innovazione. Forse la terza via sarebbe stata quella di presentare a loro le proposte innovative, prima di raccontarle a manager fautori della tradizione e totalmente miopi rispetto ai vantaggi che gli stessi scriba del 21° secolo probabilmente avrebbero percepito immediatamente.
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