E’ stata pubblicata più di un anno fa (in G.U. del 29 dicembre 2017) la legge di bilancio del 2018 che prevedeva, a partire dal 1 gennaio 2019, un’imposta sulle transazioni digitali B2B in Italia (subito ribattezzata “Web Tax”) con un’aliquota del 3% sul valore della singola transazione, al netto dell’IVA.
Nuovi dettagli sui criteri applicativi
Con la legge di bilancio 2019 viene ora introdotto un criterio economico complessivo, ovvero l’applicazione della Web Tax esclusivamente ai guadagni delle imprese che, in un anno, abbiano registrato un fatturato complessivo non inferiore a 750 milioni di euro, di cui almeno 5,5 milioni di euro derivanti dalla vendita di servizi digitali in Italia e abbiano effettuato almeno 3000 transazioni.
La buona notizia è che tale elevato numero di transazioni, sebbene indipendente dall’importo unitario che potrebbe essere pari ad 1 euro così come 1000 euro, dovrebbe permettere alle aziende italiane che hanno da poco iniziato ad investire nel digitale di non essere assoggettate a questa nuova tassa. Inoltre la stessa Commissione ha stabilito che la web tax non si dovrà applicare “se il prestatore del servizio o il cedente dimostra di essere assoggettato ad un livello di tassazione effettiva superiore al 12%”.
L’imposta dovrà inoltre essere prelevata al pagamento del corrispettivo dai soggetti committenti, con obbligo di rivalsa sui prestatori. L’onere di verificare se ricorrano, o meno, i requisiti per l’applicazione dell’imposta ricadrà sempre sui committenti, i quali la dovranno versare al fisco entro il 16 del mese successivo a quello del pagamento del corrispettivo, con ulteriori aggravi a loro carico.
Soluzioni alternative
Nonostante gli accorgimenti adottati dalla Commissione, secondo Roberto Liscia, il Presidente di Netcomm, il Consorzio del Commercio Elettronico Italiano, un’imposta sulle società che operano nel mercato digitale necessita di ulteriori correzioni.
In particolare tale tassazione potrebbe essere vantaggiosa solo nel caso in cui sia “basata sui profitti e non sui fatturati e a parità di condizioni nel contesto fiscale, in modo che le imprese siano tassate in modo equo e non discriminatorio” mentre, secondo il fiscalista Andrea Silvestri, un’altra soluzione potrebbe essere rappresentata da una: “maxi deduzione delle spese relative alla digitalizzazione” applicata alle imprese italiane.
Settori del digitale interessati
In ogni caso la web tax diventerà operativa solo quando arriveranno le regole attuative dei Ministeri dell’Economia e dello Sviluppo economico, delle Authority per le comunicazioni e per la Privacy e dell’Agenzia dell’Italia digitale (previsti entro 4 mesi dall’entrata in vigore della Legge di Bilancio) e si applicherà a tre settori del mercato digitale:
- pubblicità mirata agli utenti della rete online;
- fornitura di servizi venduti su piattaforme digitali;
- trasmissione di dati raccolti da utenti e generati dall’utilizzo di un’interfaccia digitale.
L’obiettivo perseguito dal legislatore nazionale è creare un collegamento più stretto tra il luogo in cui viene creato il profitto e dove viene tassato, prevedendo un’imposizione fiscale dei ricavi digitali prodotti in Italia dalle aziende cosiddette over the top, come Google e Facebook (solo queste ultime infatti avrebbero eluso imposte per 550 milioni di euro nel triennio 2013-2015).
I dubbi…
È innegabile che, sebbene l’intento del legislatore abbia ragioni importanti e condivisibili, finché lo stato chiederà alle aziende di dichiarare spontaneamente di aver superato le 3 mila transazioni digitali nell’anno precedente (senza dotarsi di mezzi adeguati a smascherare bugie e inesattezze) ci troveremo di fronte a una normativa che appare più simbolica che efficace.
La web tax inoltre, ove dovesse essere attuata nei termini su descritti, si applicherebbe in egual misura a tutte le imprese, estere o italiane, a prescindere dalla loro localizzazione e l’introduzione di un prelievo aggiuntivo delle fee commerciali dai portali di vendita online finirà, evidentemente, con l’essere traslato sul venditore italiano (e, successivamente, anche sul consumatore).
In conclusione, un provvedimento che, per la sua importanza, imporrebbe una discussione e un’adozione condivisa a livello comunitario, se non internazionale, rischia di venire attuato per mere “ragioni di cassa”, rischiando, nel medio-lungo periodo, di produrre effetti negativi sull’economia nazionale.
Ancora una volta… il nostro legislatore sembra preferire l’uovo oggi alla gallina domani.
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