L’anno 2020 si è aperto con l’introduzione in Italia della c.d. “Digital Tax”, una tassa volta alla regolazione della tassazione per le multinazionali che forniscono servizi digitali, i colossi del web come Amazon, Google e Facebook, per assicurare equità fiscale e concorrenza leale. Dopo due anni di rinvii, con la Manovra 2020, verrà applicata l’Imposta sui servizi digitali, intervenendo sulla disciplina introdotta dalla legge sul bilancio n. 145/2019, art. 1, commi da 35 a 50, così come modificata dalla legge di stabilità 2020.
La digital tax italiana si è ispirata al progetto internazionale dell’Ocse, ancora in fase di trattativa, volto all’adozione della c.d. “Web Tax”, prevedendo l’applicazione di un’aliquota al 3% sui ricavi – risalenti all’anno solare precedente a quello di imposta – dei servizi digitali delle società tecnologiche che vantano un fatturato globale non inferiore a 750 milioni di euro e un ammontare di ricavi derivanti dalla prestazione di servizi digitali sul mercato italiano non inferiore a 5,5 milioni di euro.
Gli ambiti i applicazione
Per quanto riguarda l’ambito di applicazione di tale imposta, essa va a colpire i ricavi ottenuti tramite la prestazione di specifici servizi resi tramite interfaccia digitale. Più precisamente, il comma 37 della l. n. 145/2019 indica le seguenti attività:
- la diffusione di pubblicità mirata agli utenti dell’interfaccia digitale;
- le interazioni e le condivisioni di dati tra gli utilizzatori di piattaforme digitali finalizzate a facilitare la fornitura diretta di beni e servizi;
- la trasmissione di dati raccolti dagli utenti e generatisi tramite l’utilizzo dell’interfaccia digitale.
Sono esclusi dall’applicazione dell’imposta italiana i beni e le prestazioni di società finanziarie intermediarie e la fornitura diretta di beni e servizi digitali e la messa a disposizione di un’interfaccia digitale che abbia la finalità di fornire agli utenti contenuti digitali, servizi di comunicazione o servizi a pagamento.
L’imposta si applicherà allorché l’utente di un servizio sottoposto alla tassazione verrà localizzato tramite l’indirizzo IP o tramite un altro sistema di geolocalizzazione nel territorio dello Stato ma è stato specificato che la tassa si applicherà indistintamente ai ricavi sui servizi digitali realizzati sia dalle imprese italiane sia da quelle estere. Tuttavia, va certamente tenuto in considerazione che il legislatore abbia voluto dotarsi di uno strumento giuridico idoneo a tassare tutti quei soggetti non residenti – in particolare i c.d. big del web – che, attraverso l’erogazione di servizi tramite Internet, ricavano dei profitti che finora non sono mai stati sottoposti a tassazione. La finalità è proprio quella di “colpire” il business del web che fornisce servizi digitali di cui l’utente spesso non ha consapevolezza o che ritiene marginali. Basti pensare alla trasmissione, ai fini della profilazione, dei dati originati dalla navigazione o alla pubblicità mirata online, tutte attività che fruttano ingenti profitti alle imprese del web.
Il dibattito internazionale
Tali tematiche sono state e sono tutt’ora la causa di un acceso dibattito internazionale che riguarda, come già accennato, la possibilità dell’introduzione di una Web Tax internazionale. L’Ocse sta gestendo da tempo una trattativa, che coinvolge ben 137 paesi, con queste finalità ma i lavori vanno notevolmente a rilento specialmente perché gli Stati Uniti pongono continuamente degli ostacoli, a causa anche del fatto che tanti dei grandi colossi del web hanno lì la propria sede. Infatti, gli USA avrebbero proposto di introdurre nell’accordo una condizione definita “safe harbour”, dai confini ancora troppo poco definiti, che potrebbe portare all’introduzione del principio dell’opzionalità della tassazione, permettendo così alle più grandi imprese del digitale di non sottoporsi a tale tassa. Tale condizione si contrapporrebbe, però, all’obiettivo cardine dell’Ocse, che è quello di creare un nuovo sistema che assicuri che le multinazionali del digitale siano sottoposte ad una quota minima di imposte per proteggere gli Stati dal fenomeno definito Base Erosion and Profit Shifting (BEPS), ossia l’insieme delle strategie fiscali perseguite dal alcune imprese per sottrarsi alle imposte del fisco.
Dal canto suo, l’Unione Europea spinge nella direzione di un accordo internazionale consensuale ma si è anche dichiarata disposta a procedere in autonomia qualora le trattative si protraggano per tempi eccessivamente dilatati, dichiarando che l’adozione di una web tax è fondamentale per ovviare alla facilità con cui tante aziende tecnologiche riducono al minimo i contributi in UE attraverso pratiche sleali, a discapito delle altrettante aziende mondiali che pagano le tasse. In realtà, però, anche all’interno dell’Unione stessa vi sono notevoli fratture dovute ai diversi orientamenti dei paesi membri. Infatti, alcuni di essi, come l’Italia e la Francia, spingono verso l’adozione di una web tax europea, altri invece pongono dei freni, specialmente l’Irlanda, il Lussemburgo e l’Olanda, definiti paradisi fiscali perché hanno posto finora dei regimi fiscali particolarmente convenienti per le big tech, che possono “spostare” il denaro eludendo il fisco nazionale. Anche la Germania pare aver accolto tiepidamente l’idea, probabilmente per il pericolo delle ritorsioni degli USA, che potrebbero introdurre dazi nel settore delle automobili. A causa della lentezza della prosecuzione dei lavori e delle difficoltà nel trovare un orientamento comune, alcuni paesi, come l’Italia e la Francia appunto, si sono mossi in autonomia al fine di inserire tale tassa all’interno dei confini nazionali. In Francia la web tax nazionale è stata approvata lo scorso anno ed è entrata in vigore a gennaio 2020 scatenando l’ira del presidente americano Trump, che ha imposto un aumento dei dazi per chi acquista prodotti digitali francesi. L’Italia, con le modalità su esposte, si è ispirata alla Francia, introducendo però una clausola, c.d. “sunset clause”, secondo la quale l’imposta nazionale rimarrà in vigore fino all’attuazione delle disposizioni che deriveranno dagli accordi raggiunti nelle sedi internazionali.
Prevale l’interesse individuale
La situazione generale appare, quindi altamente complessa e diversificata a causa dei tanti e diversi interessi che si devono soddisfare. Le trattative sono lente perché ognuno dei soggetti coinvolti mira al soddisfacimento del proprio interesse e benessere economico a scapito del raggiungimento di un compromesso comune. L’avvento dell’economia digitale ha creato nuove fonti di guadagno creando un’alta mobilità di capitale, transazioni sempre più numerose e l’internazionalizzazione delle strutture finanziarie. Nonostante si parli spesso di internazionalizzazione, la realtà è che ogni Paese tende sempre ad operare delle scelte tese al raggiungimento dei propri obiettivi, specialmente quando si affrontano tematiche spinose come quelle economiche. Probabilmente è anche per tale motivo che alcuni paesi optano per l’adozione di politiche economiche autonome, nell’attesa di un accordo globale di cui, però, non si intravede ancora la conclusione, almeno non in tempi brevi.
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