Trattenere i talenti e riuscire a rendere l’azienda attrattiva per i giovani laureati è importante per le aziende. Ancora di più oggi che temi come lo skill shortage e la carenza di competenze sono elementi di criticità. Da diversi anni è risaputo che il mercato del lavoro, parliamo di quello italiano, affronta sfide sociali ed economiche complesse, che richiedono una strategia su misura per tutta la sfera delle risorse umane. Lo studio di The European House Ambrosetti e Jointly – Una Nuova Visione di Corporate Wellbeing – mette a fuoco aspetti sociali ed economici, ma soprattutto evidenzia, sulla base dei numeri come una strategia accurata di corporate wellbeing possa aiutare le aziende a ridurre il costo del lavoro, migliorare il benessere individuale e organizzativo, rendere le aziende attrattive. Con un significativo ritorno anche degli investimenti.
Il contesto
Alcune macro-evidenze: l’Italia sconta dal 2000 una situazione di stagnazione della produttività e una crescita del Pil inferiore rispetto agli altri principali Paesi europei, con una lieve inversione di tendenza solo nel biennio 2021-2022 anni in cui l’Italia ha registrato tassi di crescita più elevati della media UE; ora il Paese è già in “frenata” (+0,7% secondo il Fondo Monetario Internazionale).
Lo studio valuta quindi come il nostro mercato del lavoro fronteggi una serie di elementi di discontinuità, di natura sia esogena (andamento demografico, welfare, inflazione etc.) sia endogena come l’oggettiva difficoltà di recruiting e la crescente insoddisfazione dei dipendenti.
Ripensare le strategie HR
Serve quindi ripensare strategie HR con al centro la qualità dell’esperienza lavorativa e, dall’altro, la definizione di un nuovo modello di integrazione vita lavorativa-privata. Sono questi valori sempre più indicati come centrali rispettivamente dal 40% e dal 36% dei lavoratori. Basterebbe ricordare che nel 2022, oltre 1 milione di lavoratori ha presentato dimissioni volontarie, ma allo stesso tempo due posizioni su cinque sono di difficile reperimento. Non solo, i lavoratori italiani non sembra beneficiano dell’engagement che caratterizza quelli degli altri Paesi europei – solo il 5% del totale nel 2023, con il 46% del totale che si dichiara stressato. Non mancano i buoni motivi per cui oggi ci troviamo di fronte a questi numeri.
Dal 2011 ad oggi, la spesa pubblica in welfare (34,9% del Pil, sesto Paese nell’UE dei 27) è cresciuta meno degli altri grandi Paesi europei (+23,4% rispetto al 2011 contro la media UE del 36,9%). Recita il report: “il sistema di welfare nazionale rimane sbilanciato sulla componente previdenziale (+12,9% tra 2020 e 2023) e sanitaria (+11,2%) e meno sulle componenti legate a politiche sociali e istruzione”.
La crescita della spesa pensionistica, insieme al progressivo invecchiamento della popolazione mette sotto pressione la sostenibilità economica di lungo-termine del Paese. Intanto è cresciuta l’inflazione, chi ha potuto ha allineato prezzi e tariffe, ma la sfera del lavoro dipendente è rimasta ferma, fermi i salari da oltre 20 anni e inferiori a quelli di altri mercati europei (-23,8% rispetto alla Germania, -14,9% rispetto alla Francia, a parità di potere d’acquisto); inoltre “il reddito disponibile delle famiglie italiane è tornato ai livelli del 2000, e seppure quest’ultimo sia aumentato del +5,5% nel 2022, il potere di acquisto si è ridotto dell’1,6% (con una riduzione contenuta nell’ultimo anno, a causa del fatto che la propensione al risparmio è diminuita dal 13,8% all’8%)”, sono le evidenze più aspre del report. Scarsa quindi la disponibilità delle famiglie all’acquisto di servizi “in più” che siano welfare, mentre si usa il welfare per le spese essenziali.
Ed infatti l’80% dei lavoratori dichiara di aspettarsi dall’azienda un welfare aziendale di tipo “sociale”, ovvero un aiuto a trovare risposte ai bisogni di assistenza, salute, istruzione e prevenzione, comunque interventi che quando implementati in modo organico permettono di aumentare l’engagement dei dipendenti fino al 30%. Il welfare aziendale deve diventare quindi vero corporate wellbeing. Oggi la situazione fotografata è la seguente: da una parte il 56% delle grandi imprese negli ultimi anni ha visto proliferare le “iniziative” di corporate wellbeing o people caring, ma solo il 12% si è dotato di una strategia di corporate wellbeing integrata nella people strategy.
Cinque allora possono essere le linee di indirizzo per ribaltare il paradigma, con un metaobiettivo, quello di favorire l’evoluzione dell’approccio delle aziende italiane dall’adozione tattica e frammentata di “iniziative” di welfare o wellbeing all’adozione del corporate wellbeing come leva strategica per aumentare la competitività e per approdare ad un’ideale sostenibilità dell’organizzazione del lavoro.
Linee guida
In primo piano, tra le linee guida, migliorare la capacità di attrazione dei talenti facendo leva sulla valorizzazione sistematica degli elementi della strategia di corporate wellbeing all’interno delle attività di employer branding, per rendere distintiva l’employee value proposition per i candidati. Serve poi incrementare gli impatti degli interventi di corporate wellbeing sull’engagement, attraverso l’introduzione dell’ascolto organizzativo, del coinvolgimento dei collaboratori nella co-progettazione, dell’attivazione di nuovi canali e linguaggi di comunicazione interna, della formazione dei manager, del monitoraggio costante dei dati di engagement.
E’ possibile allora incrementare il tasso di retention dei dipendenti grazie all’offerta di servizi che favoriscano l’equilibrio vita-lavoro attraverso interventi che puntano a “prevenire fenomeni di burnout, insoddisfazione e malessere, con azioni sistemiche e continue, da un lato, di miglioramento organizzativo e, dall’altro, con interventi e servizi a sostegno delle necessità del singolo”. Una strategia di corporate wellbeing che deve essere anche sempre più personalizzata. Componenti salariali e monetarie e di corporate wellbeing, infine, hanno bisogno di trovare percepito il reale valore trasferito.
Corporate wellbeing, costi ripagati di cinque volte
Il messaggio chiave dello studio riguarda però il riscontro reale, economico, per le aziende che decidono di investire nel corporate wellbeing. Il beneficio ottenibile dal dipendente per le diverse componenti dei servizi di welfare aziendale supera il mero valore economico dell’investimento sostenuto dall’impresa. In numeri: a fronte di una spesa media dell’azienda di 2.500 euro pro capite, lo studio evidenzia che viene abilitato un valore reale per il dipendente pari a oltre 11mila euro.
“Le aziende hanno l’opportunità di valorizzare economicamente tutte le componenti del pacchetto di corporate wellbeing nel pacchetto retributivo dei dipendenti, al fine di agire non solo sulla leva fiscale ma anche su quella del “moltiplicatore” economico, migliorando l’attrattività e distintività sul mercato del lavoro dell’azienda”, spiega la ricerca, evitando di abilitare la creazione della spirale salari-inflazione e contenere l’impatto sul costo del lavoro. Con una semplice simulazione i punti chiave della ricerca mettono in risalto che se tutti i dipendenti in Italia avessero a disposizione servizi di welfare aziendale, “si potrebbe ottenere un incremento della spesa delle aziende fino a 45,3 miliardi di euro (x2,1 rispetto ad oggi), con un valore di mercato creato fino a 204 miliardi di euro (1,5 volte la spesa in welfare delle famiglie italiane nel 2021)”.
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