Oggi l’intelligenza artificiale sta modificando le regole nel panorama lavorativo, aprendo un’era di innovazione senza precedenti, ma suscitando anche grandi incertezze sul futuro. La diffusione dell’AI alimenta un dibattito acceso tra esperti di tecnologia, economisti e pensatori sociali, concentrati sulle possibili implicazioni a lungo termine riguardo agli impatti sulla forza lavoro. Ne parliamo con Alfonso Fuggetta, amministratore delegato e direttore scientifico di Cefriel.
L’AI sostituirà il lavoro dell’uomo? Ridimensiona la questione Fuggetta: “Prima di tutto abbiamo sbagliato a chiamarla “intelligenza” artificiale, distorcendo il suo significato e associando alla parola intelligenza un valore antropologico – esordisce -. Oggi l’intelligenza artificiale è statistica, automazione, ricerca operativa, tecnica per interconnettere le informazioni, ma non c’è nulla che rassomigli al momento all’intelligenza come la intendiamo noi esseri umani. L‘AI non sostituisce le capacità deduttive, intellettive o la nostra attività creativa e benché sia una tecnologia dalle grandi potenzialità, credo che anche in futuro sarà sempre a supporto dell’uomo e non alternativa all’uomo”.
“L’intelligenza artificiale è realtà da decenni – prosegue Fuggetta – e anche sull’AI generativa si sta iniziando a sperimentare, ad esempio per creare documenti sintetici, immagini, software, pezzi di codice, piuttosto che per testare sistemi e le possibili linee di sviluppo sono numerosissime. E’ quindi chiaro che molte cose cambieranno quando questa tecnologia sarà più matura e pervasiva, come è accaduto per le altre tecnologie emergenti, ma ad oggi gli impatti non sono ancora così travolgenti come qualcuno immagina perché quando si passa dalla sperimentazione all’uso sistemico e su larga scala emergono molti problemi irrisolti”.
Catturare il valore potenziale della AI generativa è più difficile del previsto per le imprese, come confermano alcune analisi di McKinsey secondo cui solo il 10% dei casi pilota che fanno leva sull’AI generativa va effettivamente in produzione. Peraltro, sottolinea Fuggetta, “in tanti sono oggi disposti a provare questa tecnologia e ad adottarla ma si tratta solo di realtà di grandi dimensioni perché le piccole e medie imprese non hanno le competenze e le risorse sufficienti per sperimentare”.
Il lavoro dell’uomo resiste ma all’insegna dell’evoluzione. Ne arrivano conferme anche dalle attività congiunte di alcune università – tra cui Oxford e Maastricht – che hanno esaminato sistematicamente gli ultimi 40 anni di cambiamento tecnologico e l’impatto della tecnologia sull’occupazione, distinguendo tra Ict, robotica e innovazione. Ebbene, globalmente, il saldo tra i posti di lavoro creati e quelli distrutto è positivo. “E se ci rifacciamo alle esperienze del passato vediamo infatti che i lavori cambiano ma non spariscono. La grande sfida semmai è saper gestire la transizione dai lavori vecchi ai lavori nuovi” commenta Fuggetta.
Il valore della formazione e delle regole
Quali strategie da adottare allora per gestire questa transizione nel mondo del lavoro? “A mio avviso – afferma Fuggetta – la prima leva per il Paese deve essere l’istruzione: dovremmo investire in formazione e potenziamento delle capacità dei lavoratori. La seconda è la ricerca e sviluppo e la terza è la trasformazione di impresa. E’ necessario imparare a conoscere l’AI per sfruttarla, valorizzarla all’interno delle nostre realtà produttive, culturali, sociali. Perché se pensiamo di contrastare l’arrivo dell’AI o di qualsiasi altra tecnologia chiudendo le porte non facciamo che tentare di arginare un’onda che comunque arriva e ci travolge”.
In questo contesto, quanto contano le regole? “Ritengo che ci sia una postura europea, ma ancor più nazionale, in cui prevale l’idea di controllare, regolare, mettere paletti (vedi AI Act, Nis2, Dora). Anche sulla riservatezza dei dati, sicuramente ha senso intervenire con norme e criteri di trasparenza, per rendere visibile ad esempio se un certo contenuto sia stato prodotto dall’AI, piuttosto che sia basato su determinate collaborazioni algoritmiche; servono anche strumenti per bloccare campagne di disinformazione basate su deep fake e altri casi estremi. Come è valso per il primo regolamento importante europeo: il Gdpr, creato in maniera pacata e ragionata, non perfetto ma che già interviene”.
Tuttavia, avremmo bisogno di un approccio più positivo e di una capacità di investimento e di sperimentazione più forte. “Questo è un problema di fondo e personalmente preferisco l’atteggiamento americano dove si parla più di supporto alla sperimentazione, investimento in centri di sviluppo e prototipi, assessment e standard volontari per cercare di controllare quali possano essere le possibili implicazioni, perché se non abbiamo capito la tecnologia non sappiamo cosa regolare“, conclude Fuggetta.
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