La qualità della vita sul posto di lavoro ed il benessere complessivo sono elementi imprescindibili per la la maggior parte dei lavoratori italiani. E’ quanto emerge dall’VIII Rapporto Censis-Eudaimon sul Welfare Aziendale. Il documento, realizzato in collaborazione con Eudaimon e con il contributo di Credem, Edison, Michelin e Ovs (Lavoro, Aziende e Benessere dei Lavoratori: un’Epoca Nuova è il nome della ricerca) mette in luce un quadro complesso in cui stress, ansie personali e professionali si mescolano, e danno origine a fenomeni come la “sindrome da corridoio”.
L’indagine, presentata a febbraio a Roma, fornisce dati su come il lavoro, e l’organizzazione che lo caratterizza, influiscano sullo stato fisico e psicologico delle persone. Emerge un punto centrale: per l’83,4% dei dipendenti italiani, è una priorità che l’occupazione contribuisca positivamente al proprio benessere, a 360 gradi, quindi sia fisico sia mentale. Una tensione, quella al benessere, che risulta trasversale alle diverse categorie professionali e alle varie fasce di età, seppur con intensità differenti. Basta scorrere i numeri per comprende la portata del fenomeno.
Se si osserva la percentuale generale relativa alla percezione dell’importanza del benessere, infatti, si nota che dirigenti, impiegati e operai concordano: per il 76,8% dei dirigenti il benessere è prioritario, così come per l’86,1% degli impiegati ed il 79,5% degli operai. I più attenti al benessere “olistico” sono i lavoratori con più di 55 anni (88,4%), seguiti da quelli tra i 35 e i 54 anni (85,7%).
E’ solo di poco inferiore il dato, comunque elevato, che riguarda la fascia dei 18-34enni, con il 75%. In generale, quindi, l’attenzione alla qualità della vita all’interno delle mura aziendali risulta un tema diffuso, che accomuna generazioni diverse e ruoli professionali eterogenei. Si è di fronte a una richiesta di maggiore attenzione che, se rimane inascoltata, rischia di tradursi in sensazioni di disagio e disaffezione.
Il cuore del rapporto mette in evidenza però un dato preoccupante: il 31,8% dei lavoratori dipendenti dichiara di avere vissuto almeno una volta sensazioni di esaurimento, estraneità o un sentimento negativo verso il proprio lavoro, sintomi riconducibili a forme di burnout. Cresce soprattutto tra i più giovani (18-34enni) il fenomeno. E’ questa la fascia di età in cui la percentuale raggiunge il 47,7%, mentre coinvolge il 28,2% dei lavoratori adulti e il 23,0% dei lavoratori più anziani. Lo scostamento anagrafico è interpretabile come la difficoltà dei più giovani a gestire le pressioni di un mercato del lavoro competitivo, spesso caratterizzato da contratti precari e prospettive di carriera poco chiare. A queste sensazioni di burnout, si affiancano altri aspetti che fotografano un ambiente lavorativo troppo spesso vissuto come ostile: il 73,0% dei dipendenti dichiara di aver affrontato stress o ansia legati all’attività professionale, mentre il 76,8% confessa di aver faticato a tenere separata la dimensione privata da quella lavorativa.

Gli indicatori di disagio sono in verità molteplici. Tre persone su quattro (75,9%) si sentono di frequente sopraffatte dalle responsabilità di tutti i giorni, un mix di impegni lavorativi e familiari che, soprattutto per chi ha figli o parenti anziani a carico, può trasformarsi in un carico emotivo e organizzativo insostenibile. Quasi il 74% ammette di avvertire eccessiva pressione durante l’orario di lavoro, circostanza che incide sulla capacità di concentrazione e, a lungo termine, sulla soddisfazione professionale. Ancora, il 67,3% dei rispondenti lamenta l’assenza di adeguato supporto da parte del proprio datore di lavoro, mentre il 68,5% ritiene che in azienda non si promuova a sufficienza un buon ambiente lavorativo. Quando il contesto professionale non riesce a dare sostegno nei momenti di difficoltà, il rischio è di innescare un circolo vizioso di frustrazione, stress e, in casi estremi, manifestazioni di vera e propria patologia, come conferma il dato secondo cui che il 36,7% dei lavoratori abbia già consultato uno psicologo o abbia fatto ricorso a un servizio di counseling.
La sindrome da corridoio
È in questo solco che si inserisce proprio il fenomeno identificato come “sindrome da corridoio”. Con questa definizione si fa riferimento a una sorta di osmosi tra le ansie lavorative e quelle personali, che finiscono per confondersi e accumularsi, e riducono il benessere soggettivo. Dalla ricerca Censis-Eudaimon emerge che 3 milioni di lavoratori italiani soffrono di questa forma di stress pervasivo, che si insinua tra le mura domestiche e quelle dell’ufficio senza soluzione di continuità. Un quarto dei dipendenti (25,7%) confessa di portare in azienda i propri problemi personali, con un conseguente impatto negativo sulla performance e sul clima organizzativo. Oltre un lavoratore su tre (36,1%) si porta i problemi del lavoro a casa, e rischia di compromettere le relazioni con familiari e amici. Il fenomeno colpisce specialmente i giovani: se guardiamo alla fascia 18-34 è 41 la percentuale di chi dichiara di trasferire lo stress professionale nella sfera privata. L’analisi per fasce di età su questo specifico aspetto tuttavia racconta che anche gli adulti e i lavoratori più anziani non sono immuni – rispettivamente il 34,9% e il 33,7% ammettono di vivere lo stesso trascinamento negativo dal posto di lavoro alle mura domestiche. Un processo analogo avviene in senso inverso, con i problemi familiari che influiscono sul rendimento e lo stato d’animo durante l’orario di lavoro.

Il 29,2% degli adulti e il 20,6% dei più anziani confessano di portarsi in ufficio i disagi di casa. È un circolo vizioso che, se non interrotto, sfocia in un crescendo di tensioni e incomprensioni, sia a livello personale sia all’interno dei team di lavoro, abbassando la qualità delle relazioni interpersonali e la motivazione.
I lavoratori chiedono supporto e flessibilità
In un simile contesto, emerge la richiesta di strumenti di supporto per i lavoratori, che coinvolgano tanto la sfera mentale quanto quella del tempo libero. Una delle tendenze evidenziate nel Rapporto è la crescente necessità di sostegni psicologici (ma anche di pratiche di meditazione o yoga): il 63,5% degli intervistati dichiara di voler essere aiutato nell’accesso a servizi che supportino la propria salute mentale. A fronte dei livelli di pressione quotidiana, non sorprende che la richiesta numero uno dei lavoratori sia la possibilità di disporre di più tempo di qualità: ben l’89,4% desidera maggiore disponibilità di ore da dedicare a se stessi e alle proprie passioni, l’86,2% anela a trascorrere più momenti con amici e familiari. Il 78,9% vorrebbe maggior spazio per praticare attività fisica, il 73,9% per coltivare hobby e interessi culturali, e il 79% invoca una maggiore possibilità di riposo.

Dati che raccontano l’esigenza di cambiamento nell’organizzazione del lavoro, volto a ridurre la dicotomia fra tempo produttivo e vita privata. Flessibilità oraria, smart working e politiche di conciliazione lavoro-famiglia vengono invocate come strade per attenuare lo stress e migliorare la salute psico-fisica dei dipendenti. Non a caso, l’87,6% degli interpellati sottolinea l’importanza di sentirsi valorizzato in azienda, percependo che il proprio contributo venga riconosciuto, mentre il 64,1% considera utile anche lo smart working per migliorare il bilanciamento fra impegni professionali ed extra-lavorativi.
“L’anelito al benessere è di tutti e riguarda tutte le dimensioni – commenta l’AD di Eudaimon, Alberto Perfumo – fisica, mentale, sociale ed economica. I tempi sono maturi per le aziende per proporsi come hub del benessere, garantendo ascolto e accompagnamento alle soluzioni, da quelle più piccole e quotidiane a quelle più articolate, private e pubbliche. Un ruolo nuovo che garantisce più attenzione alle persone e maggior coinvolgimento“. Questo significa che la funzione risorse umane e i vertici direzionali non possono più limitarsi a offrire un pacchetto standard di benefit, ma devono progettare e promuovere un ecosistema di servizi a sostegno della persona, includendo attività ricreative, sportive, servizi di counseling, strumenti di flessibilità e soprattutto un dialogo continuo sui temi del benessere. Le aziende potrebbero così diventare centri di integrazione e sostegno, in grado di allentare i nodi di uno stress che colpisce tanto la sfera privata quanto quella lavorativa.

Gli fa eco Giorgio De Rita, segretario generale del Censis, che a sua volta sottolinea come la sfida per le imprese sia quella di saper attrarre e trattenere i lavoratori, rispondendo alle nuove aspettative: “]…[ le persone non rinunciano all’obiettivo del proprio benessere olistico, cioè psicofisico e sociale. Tuttavia, sono ancora molte le situazioni di stress legate al lavoro e in particolare la sindrome da corridoio, cioè l’osmosi di ansie e disagi tra lavoro e vita privata. Attrarre e trattenere lavoratori significa sempre più misurarsi con le loro nuove e inedite aspettative”. Rilievo che si ricollega ai dati che segnalano la crescita del burnout tra i giovani.
Il “buon lavoro” assume quindi una nuova connotazione. Il rapporto indica i principali fattori che determinano un impatto positivo sulla percezione del benessere soggettivo: per quasi il 95% dei dipendenti è cruciale un buon rapporto con i superiori e con i colleghi, mentre il 93,1% mette al primo posto la possibilità di operare con un certo grado di autonomia, un elemento che stimola la crescita professionale e la fiducia in se stessi.

Per le aziende è necessario passare a una fase in cui flessibilità e cultura del benessere non siano viste come semplici bonus, ma come elementi strutturali di una cultura aziendale orientata alla persona. In un mondo del lavoro sempre più complesso e in continua evoluzione, garantire il benessere di chi opera in azienda non è soltanto un obbligo morale, ma anche un fattore di competitività. Un dipendente che si sente supportato, ascoltato e in equilibrio tra lavoro e vita personale sarà infatti più motivato e produttivo, ma soprattutto più fedele all’organizzazione. In definitiva, appare chiaro che l’investimento in welfare, formazione e sostegno psicologico non costituisce un costo, bensì un fattore strategico di successo per le imprese.
© RIPRODUZIONE RISERVATA