Riguarda tutte le nostre aziende, questo si predica bene e si razzola male. In prima fila, noi come voi crediamo molto nel valore di tecnologie, trasformazioni, modelli, processi, incentivi, smart working, sicurezza… Con qualsiasi azienda intervistata o incontrata siamo soliti dibattere della spinta impressa dall’innovazione sui processi aziendali (davvero ci crediamo), necessaria e strategica, imprescindibile ma… a ben guardare… spesso ferma alle sole parole, con la sensazione a pelle che molte realtà che predicano bene razzolano male. Ne è arrivata in parte conferma.
Tre fotografie scattate in settimana alimentano questo pensiero, lasciando di contro ampi spazi di miglioramento. A voi smentirci.
Istat sull’innovazione
Dal Censimento permanente delle imprese, una realtà su tre (34,6%) ha sperimentato tra il 2016 e il 2018 cambiamenti di processo, prodotto o mercato (soprattutto al Nord). Se la modernizzazione tecnologica delle attività dell’impresa risulta il processo più diffuso (28,4%) seguita dalla diversificazione di attività attraverso la creazione di una nuova attività oltre quella prevalente (10,1%), i cambiamenti più complessi, basati su transizioni o trasformazioni innovative del business aziendale, coinvolgono poco più del 10% delle imprese (rispettivamente il 7,4% e il 3,4%). Predichiamo bene (tecnologia al servizio del business), razzoliamo male (ci applichiamo poco).
Se guardiamo però alla fetta delle imprese che hanno avviato processi di cambiamento aziendale, vediamo che operano nei settori IT (56,4%), finanziario (51,5%), sanitario (51,4%), formativo (48,2%), professionale (46,6%). Insomma, quelle del nostro caro mondo digital razzolano bene. E oltre tre quarti (il 77,5%) delle imprese con almeno 10 addetti ha investito in una delle 11 tecnologie individuate come fattori chiave di digitalizzazione, dando priorità agli investimenti infrastrutturali (soluzioni cloud, connettività in fibra ottica o in mobilità, software gestionali). Mentre solo a un più avanzato grado di digitalizzazione, gli investimenti in tecnologia divengono strutturali e integrati tra loro con l’utilizzo di 3 tecnologie (delle 11 considerate). Razzoliamo benino.
Eurostat sullo smart working
Nel 2018, se rimane stabile al 5,2% il numero delle persone occupate nell’Unione europea che lavora abitualmente da casa, cresce sensibilmente la percentuale di coloro che lo fanno saltuariamente, passata dal 5,8% del 2008 all’8,3% nel 2018. In cima alla lista nelle Ue i Paesi Bassi (14,0% degli occupati complessivi) tallonati da Finlandia (13,3%), Lussemburgo (11,0%) e Austria (10,0%). In coda, Bulgaria (0,3%) e Romania (0,4%). L’Italia è al 19esimo posto (3,6%, sotto la media europea) superata dai vicini di casa (Francia, Uk, Germania, Spagna). Predichiamo bene, razzoliamo male rispetto all’Europa, nonostante il moderno quadro normativo (Legge 81/2017) e le ricerche sottolineano maggior produttività, soddisfazione, sostenibilità. Ma, in riferimento alle sole aziende, Stefano Menghinello, direttore centrale raccolta dati Istat, osserva un movimento interessante: “Lo smart working è presente solo nel 10% delle Pmi, ma ben nel 30% delle grandi imprese (con percentuali diverse a seconda delle realtà), e il delta tra i due mondi è destinato ad allargarsi perché le grandi aziende saranno sempre più favorevoli”. Nel nostro settore IT sono già molte le realtà che lo adottano, soprattutto tra le multinazionali, da Microsoft ad Accenture, da Siemens a Amazon Web Services.
Word Economic Forum sui talenti
Il Global Talent Competitiveness Index (GTCI) – redatto dal Wef su 132 Paesi – si è focalizzato quest’anno sull’intelligenza artificiale e sulla competitività dei talenti, sottolineando proprio come l’AI modelli la competitività, non solo delle singole persone ma anche della economie in cui poi si innesta. “Una AI etica, pensata per il bene, che integri e non sostituisca il valore umano insostituibile per creatività, curiosità, entusiasmo, leadership, empatia”. Accresce la competitività.
La top 10 dei Paesi che investono sui talenti annovera economie ad alto reddito (con qualche spostamento in classifica) con l’aggiunta di un terzo Paese extraeuropeo (l’Australia). Tra i primi dieci Paesi l’Italia non c’è, neanche tra i primi venti, ma sono sempre più le iniziative italiane avviate (studi, gruppi di esperti, normativa, attività ministeriali) in attesa che portino frutto, predichiamo bene, razzoliamo male.
Una nota positiva. Razzoliamo bene in cultura. Siamo primi nella classifica dei Paesi con la maggior influenza culturale al mondo, redatta dalla Wharton School della Pennsylvania University con la società Bav Group. Perché quando si parla di influenza culturale l’Europa resta il riferimento a livello mondiale. L’Italia si conferma ancora una volta al primo posto, seguita da Francia e Spagna. Razzoliamo bene, dovremmo in questo caso predicare di più.
© RIPRODUZIONE RISERVATA