La trattativa per creare una rete unica in Italia ha tenuto banco tutta l’estate e ora due accordi avviano la lunga strada dell’integrazione: Tim e Cassa depositi e prestiti (Cdp) si sono dette pronte per far nascere la società per la rete unica (AccessCo), firmando i protocolli di intesa ancillari a un percorso tutt’altro che semplice (al vaglio poi dell’autorità antitrust, con il parere favorevole del governo). Ma prima della nascita di AccessCo, Tim dovrà dare vita a FiberCop, nella quale confluirà la sua rete secondaria (quella che copre la distanza dall’armadietto in strada alla casa del cliente).
Ricapitolare serve anche a noi. Andiamo per gradi.
Primo passo, nasce FiberCop
Il primo accordo vede la firma tra Tim, Kkr Infrastructure e Fastweb per dare vita a FiberCop, la società in cui verranno conferite la rete secondaria di Tim e la rete in fibra sviluppata da FlashFiber (joint-venture partecipata da Tim all’80% e da Fastweb al 20%).
FiberCop – di cui Tim deterrà il 58%, Kkr Infrastructure il 37,5% (grazie all’investimento di 1,8 miliardi di euro) e Fastweb il 4,5% – è il primo passo per la realizzazione di una società della rete digitale italiana in fibra, “che rappresenta un punto di svolta per le telecomunicazioni del Paese” precisa Tim, sottolineando come FiberCop consentirà a Tim, Fastweb e agli altri operatori di “co-investire completando i piani di copertura in fibra nelle aree nere e grigie del Paese e accelerando l’adozione dei servizi ultrabroadband (Ubb)”.
Un progetto di cui fa parte anche un Memorandum of Understanding firmato in questi giorni da Tim e Tiscali per definire anche la partecipazione economica di Tiscali al progetto di co-investimento in FiberCop.
I tempi non sono immediati. FiberCop dovrebbe nascere (con meno di 100 dipendenti) una volta ottenute le autorizzazioni delle autorità competenti entro il primo trimestre del 2021 e si interfaccerà con tutti gli operatori del mercato offrendo loro servizi di accesso passivi della rete secondaria in rame e fibra.
Farà leva sull’infrastruttura in fibra già posata da FlashFiber, senza duplicazione di investimenti, e grazie agli asset di rete in essere sarà in grado di offrire collegamenti Ubb all’85% della popolazione con tecnologie Fttc (fiber to the cabinet, la fibra arriva solo fino a una cabina esterna alla casa dell’utente e il segnale percorre gli ultimi metri con un cavo di rame) e Ftth (fiber to the home, la fibra arriva direttamente nella casa degli utenti) con il piano di estendere la copertura Ftth al 76% delle unità immobiliari delle aree grigie e nere entro il 2025 (pari al 56% delle unità immobiliari del Paese).
Nelle aree bianche, invece, la stessa Tim continuerà a portare avanti il progetto di copertura Ubb attualmente in corso e sarà fornitore esclusivo per la costruzione e la manutenzione delle reti di FiberCop. “Si prevede che FiberCop avrà un Ebitda di circa 0,9 miliardi di euro ed Ebitda – Capex positivi a partire dal 2025 e non richiederà iniezioni di capitale da parte degli azionisti” precisa Tim.
Secondo passo, nasce AccessCo
Il secondo accordo vede la nascita di AccessCo, dalla fusione di FiberCo e Open Fiber, che sarà a tutti gli effetti la società garante della costituzione della rete unica nazionale in fibra per spingere la connettività veloce lungo tutto lo Stivale. Un unico operatore che si farebbe carico dello sviluppo della rete e della vendita della propria infrastruttura agli operatori.
Secondo quando riportato nella lettera d’intenti firma dal consiglio di amministrazione di Tim e da Cdp Equity (Cdpe), Tim deterrà almeno il 50,1% di AccessCo, ma attraverso un meccanismo di governance condivisa con Cdpe sarà garantita l’indipendenza e la terzietà della società (con meccanismi di maggioranze qualificate e regole di controllo preventivo).
Non sarà un processo semplice l’integrazione delle due realtà ma il memorandum firmato da Tim e Cdpe scandisce le tappe per arrivare alla creazione di AccessCo. Così recita l’accordo: “Per definire i valori degli asset destinati a confluire in AccessCo – e le relative quote di partecipazione nella società – le parti incaricheranno valutatori terzi per avviare i relativi processi di due-diligence relativi a FiberCop e Open Fiber. Prima della fusione, è previsto che Tim conferisca in FiberCop un ulteriore ramo d’azienda che consiste nella rete primaria funzionale alle attività operative di FiberCop. Il processo di due-diligence è atteso entro la fine dell’anno nell’ottica di raggiungere un eventuale accordo di fusione non oltre il primo trimestre del 2021”.
Come per la nascita di FiberCop, il closing dell’operazione sarà condizionato alle autorizzazioni delle autorità competenti.
Basta guardare alla composizione delle due aziende che guidano l’intesa per capire la delicatezza del merge.
Oggi Tim (che ha il 58,8% di FiberCop) gestisce 12,2 milioni di linee Internet (su 19 milioni in tutta Italia), ha come azionisti Vivendi (23,94%), Cassa depositi e prestiti (9,89%) e l’imprenditore americano Paul Elliott Singer (6,98%).
Open Fiber, nata nel 2015 con un piano ambizioso di portare la fibra con banda ultralarga in tutta Italia, è in parti uguali (50%) di Enel e Cassa depositi e prestiti, società controllata all’83% dal Ministero dell’Economia ma sembra prossimo il suo riassetto, che dovrebbe coinvolgere anche il fondo australiano Macquarie sulla quota di Enel, con il diritto di prelazione di Cdp per diventarne socio di maggioranza. Open Fiber, che aveva iniziato a sviluppare le reti in fibra ottica nelle aree di mercato economicamente vantaggiose (le grandi città), aveva cercato di incentivare grazie a fondi europei anche l’estensione del progetto verso le “aree a fallimento di mercato”, cioè non redditizie, dove i costi degli investimenti avrebbero superato i ricavi per gli operatori (più o meno 7.000 comuni) senza di fatto riuscirci. Da qui anche il riassetto del gruppo.
Tema vecchio, perché ora?
Il tema della rete unica per la connessione in Italia è tutt’altro che nuovo, torna a più ondate dagli anni ’90 senza mai concretizzarsi, per la contrarietà in passato anche della stessa Telecom che non voleva lo scorporo della rete (separando il business della gestione della rete fisica dalla vendita dei servizi).
Ma l’emergenza sanitaria ha riportato in auge la necessità di colmare gap strutturali, sottolineando quanto la capacità di rispondere all’emergenza dovuta al lockdown fosse collegata alla capacità digitale di aziende, sanità, pubblica amministrazione, alla mancanza di infrastrutture adeguate (solo il 55,8% delle famiglie accede a Internet con una velocità superiore ai 100 Mbit/s, fonte Agcom), riportando in primo piano l’esigenza di aver una maggior diffusione della rete per colmare quel digital divide insanabile tra centri abitati e zone periferiche, dove la rete per mancanza di convenienza economia mai è arrivata negli anni.
Da qui le pressioni degli ultimi mesi e la spinta da parte del governo per rivalutare la realizzazione di una rete unica nazionale.
Questioni da sbrogliare
Ma nonostante gli impegni sottoscritti, la questione rimane da sgarbugliare e i tempi di attuazione del nuovo progetto saranno molto lunghi per smuovere l’Italia da quella posizione stantia nell’indice Desi della Commissione Europea: sempre tra gli ultimi posti (25esima su 28 stati nel 2020) con il 30% degli utenti collegati in fibra (Fttc) contro la media del 44% dei paesi europei.
La creazione della rete unica parte da uno scenario frastagliato. Se si guardano ai dati resi noti da Agcom, le linee Internet in Italia sono 19 milioni (44,3% in rame, 41,8% in rame-fibra, 6,9% in fibra ottica e 7,1% in fixed wireless), di cui 12,2 milioni appartengono alla rete Tim (monopolista indiscusso) mentre la restante parte vede concorrere Vodafone, Fastweb, Wind Tre, Linkem, Eolo e Tiscali.
Non sarà facile costruire una rete unica che arrivi a coprire anche le aree lontane ma potrebbe essere fattivo proprio grazie al coinvolgimento dell’azione pubblica, anche nelle aree a fallimento di mercato.
La partita è tutt’altro che semplice per questo l’eventuale fusione fra FiberCop e Open Fiber è “subordinata alle autorizzazioni da parte delle autorità regolatorie e di vigilanza e all’approvazione degli organi deliberanti degli attori coinvolti” precisa Giovanni Gorno Tempini, presidente di Cassa Depositi e Prestiti. Perché l’idea che la nuova società possa essere controllata da un gruppo che vende anche servizi di telefonia agli utenti finali è un punto da chiarire che preoccupa gli organi di vigilanza.
L’Italia ha necessità di sviluppare una infrastruttura di rete che non sia legata a una posizione di forza di una unica società. Tim nello specifico.
© RIPRODUZIONE RISERVATA