“Obiettivo dell’umanesimo digitale è mettere le persone al centro del progresso tecnologico”. Non è un tema nuovo quello che lega tecnologie, competenze, quotidianità, persone allo sviluppo delle imprese e della città, ma il fatto che ne abbiano discusso, la scorsa settimana, esponenti del mondo delle istituzioni, della finanza e dell’impresa (in un evento promosso da Pwc Italia e Gedi, nel ciclo “Italia 2022: Persone, Lavoro, Impresa”) rimarca ancora l’urgenza di accelerare un passo che non riusciamo a tenere.
“L’umanesimo digitale non guarda alla tecnologia come un sistema invasivo pronto a sostituire le persone (vedremo due dati su questo a fine articolo, Ndr), il loro lavoro e le loro dinamiche sociali, ma come un’occasione di miglioramento del nostro intero sistema – argomenta Andrea Toselli, presidente e amministratore delegato di Pwc Italia -. L’aspetto più preoccupante ad oggi è il significativo ritardo in termini di capitale umano: l’Italia registra livelli di competenze digitali molto basse rispetto alla media dell’Unione europea”. Perché gli specialisti Ict nel nostro Paese sono solo il 3,6% dell’occupazione totale (sotto la media Eu, pari ai 4,3 %) e solo l’1,3% dei laureati italiani sceglie discipline Ict, rimarcando la necessità di formare nuove generazioni di giovani sulle materie Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics). Oggi attratti da queste facoltà sono solo il 24,9% dei laureati tra i 25 e i 34 anni in Italia, al di sotto dei valori di Francia (26,8%), Spagna (27,5%) e Germania (32,2%). Con un gap tra ragazzi e ragazze.
Nulla di nuovo verrebbe da dire, perché non c’è evento, convention, scenario di mercato in questi ultimi dieci anni che non fotografi questo scollamento (come gli ultimi Salesforce Live o VeeamOn Forum) ripentendo che il processo di digitalizzazione spinto dalla pandemia ha accelerato la trasformazione digitale di aziende, tessuto imprenditoriale, PA, persone e cittadini. Richiedendo nuove figure professionali e una attenzione costante alla formazione, visto che percepiamo forte il rischio di perdere parte delle opportunità legate al Pnrr, con fondi in arrivo per infrastrutture, imprese, PA (6,7 miliardi di euro per lo sviluppo delle reti a banda ultralarga e 5G, 6 miliardi per la riforma della PA, 13,4 miliardi per la digitalizzazione delle imprese). Proprio per mancanza di competenze e capacità progettuali.
A che punto siamo? Partiamo dal noto Desi, l’indice che misura la digitalizzazione dell’economia e della società: nel 2021, l’Italia si colloca al 20esimo posto fra i 27 Stati membri dell’UE, tuttavia, ha compiuto alcuni progressi in termini sia di copertura che di diffusione delle reti di connettività. Sale in decima posizione considerando unicamente la digitalizzazione delle imprese, registrando un punteggio superiore a quello della media Eu-27. Se guardiamo alle Pmi, il 69% ha raggiunto almeno un livello base di intensità digitale (60% la media UE27), un terzo utilizza servizi cloud (38% contro il 26% a livello Eu) e la quasi totalità fa uso della fatturazione elettronica (95%).
Sotto la media altri impieghi dell’Ict: utilizzo di big data (9% contro il 14% Eu), intelligenza artificiale (18% contro 25%), e-commerce (9% imprese in Italia vs 12% in Ue), Ict per progetti di sostenibilità ambientale (60% vs 66%), con scarso impiego della forza lavoro nei settori high tech che adottano tecnologie avanzate, come cloud, AI, robotica, software (7,4% contro 10,9% in Germania e 6,6% in Francia).
Umanesimo e smart working
Il miglioramento che l’umanesimo digitale porta nella modalità di lavoro lo si misura anche con l’affermarsi dello smart working, destinato a crescere anche in futuro con formule ibride a beneficio di produttività e persone (in media tre giornate agili nelle grandi aziende, due nelle PA, secondo l’Osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano), coinvolgendo in Italia 4,38 milioni i lavoratori, di cui 2,03 milioni nelle grandi imprese, 700mila nelle Pmi, 970mila nelle microimprese e 680mila nella pubblica amministrazione.
Ma – e sgrano gli occhi – nonostante questo fenomeno abbia spinto la ricerca di un nuovo equilibrio personale tra obiettivi di lavoro e di vita e abbia avviato in tutte le principali economie (anche in Italia) il fenomeno della great resignation, c’è chi smonta il modello lasciando allibiti dipendenti e non solo. E’ sempre lui, Elon Musk a tenere banco di questi tempi – sicuri sia un visionario? – che dopo avere fatto notizia per l’acquisizione di Twitter, con una email ai dipendenti di Tesla ha decretato la fine del lavoro agile: “Remote working is no longer accepted”. “Coloro che intendono lavorare da remoto – ha scritto – devono essere in ufficio per un minino (e sottolineo un minimo) di 40 ore settimanali oppure devono lasciare Tesla”.
Nulla a che vedere con il suggerimento che emerge dall’analisi dell’Ufficio Studi di Pwc Italia: “Per cogliere tutti i benefici della digitalizzazione applicata al mondo del lavoro serve l’impegno di tutti i soggetti coinvolti. Alle organizzazioni spetta il compito di portare avanti progetti coraggiosi, lavorando su policy, tecnologie, spazi di lavoro e stili di leadership; i lavoratori devono allenare skill più adeguate alle nuove modalità di lavoro ibrido; i policy maker devono accompagnare questa trasformazione a meccanismi d’incentivazione semplici e funzionali”.
“Occorre ragionare sempre in ottica di innovazione tecnologica al servizio dell’uomo considerando con grande attenzione i benefici e svantaggi che il fenomeno può comportare per il nostro sistema – precisa Toselli -. Dallo smart working al risparmio sostenibile, dalla sburocratizzazione alle intelligenze artificiali applicate ai sistemi produttivi: nell’era dell’umanesimo digitale è fondamentale ricordare di tenere le persone al centro. Il lavoro nella service economy deve quindi necessariamente prevedere nuove e più funzionali formule di riorganizzazione finalizzate ad accrescere la produttività e la redditività del dipendente, e dunque della stessa impresa”.
Certo Toselli all’inizio affermava che “l’umanesimo digitale non guarda alla tecnologia come un sistema invasivo pronto a sostituire le persone” ma di fatto l’impatto dei processi di digitalizzazione e di automazione sarà notevole a livello mondiale sui posti di lavoro, avviando nel tempo un trend per cui si compenseranno i lavori persi con quelli creati dalle nuove opportunità. Secondo la ricerca The Future of Job Report (2020) del World Economic Forum, entro il 2030 i processi di digitalizzazione e automazione porteranno alla perdita di circa 85 milioni di posti di lavoro “tradizionali”, ma l’emergere di nuove opportunità lavorative oggi non esistenti legate soprattutto a green economy, economia dei dati, AI, cloud computing e innovazione di prodotto porteranno a 97 milioni di posti di lavoro.
In Italia, la quota di lavoratori e lavoratrici ad alto rischio di rimpiazzo tecnologico nei prossimi anni varia tra il 33% (7,12 milioni di persone) e il 18% (3,87 milioni), a fronte dei nuovi posti di lavoro creati grazie alla transizione digitale (tra 886mila e i 924mila nuovi, fonte Unioncamere). Ma ci vuole tempo per il reskill delle competenze esistenti, ed è necessario ridurre lo scollamento in atto.
A proposito di gap e competenze Stem, stamattina fuori dall’Università degli Studi di Milano (in via Richini) è stata inaugurata la statua dedicata all’astrofisica Margherita Hack che ieri avrebbe compito 100 anni. L’opera, battezzata Sguardo Fisico, dell’artista Daniela Olivieri, è la prima statua pubblica dedicata a una scienziata, realizzata grazie a Deloitte e alla Case degli Artisti. Parità di genere nelle carriere professionali è un altro di quei temi che faticano a ridurre il gap. La statua di Hack che scruta il cielo sarà motivazionale, oltre che bella.
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