Vado a ruota libera. Quando erano i Bill Gates (Microsoft), gli Steve Jobs (Apple), i Mark Zuckerberg (Facebook/Meta), i Larry Ellison (Oracle), i Larry Page e Sergey Brin (Google) a fare acquisizioni di aziende e a entrare con grinta in nuovi mercati accaparrandosi dati di nuovi utenti (basti pensare a Microsoft che acquisisce Linkedin, a Facebook che si compra Instagram e WhatsApp, a Google che prende YouTube, a Oracle che guarda a TikTok) da più parti il tema della posizione dominante e delle preoccupazioni sull’uso indiscriminato dei dati da parte delle grandi aziende tecnologiche ha agitato utenti e lettori. Oltre che legislatori, che negli anni hanno capito l’urgenza di redigere normative stringenti sulla privacy e sulla sicurezza dei dati, hanno comminato multe a violatori indisciplinati (un esempio su tutti il caso Cambridge Analytica), hanno cercato di arginare lo strapotere delle grandi aziende high tech almeno nel mercato europeo (Gdpr, EU Data Act e Digital Service Act, strategie di cloud nazionale e quant’altro).

Ma oggi che, nell’era dell’acconsento compulsivo (chi di noi non clicca acconsento ai pop up che si aprono quando si atterra su un nuovo sito?) ad entrare in scena è un nuovo appariscente miliardario, Elon Musk, eclettico fondatore di Tesla e Space-X, il primo timore che assale riguarda il mondo dell’informazione e non solo quello dei dati.

Guardo con attenzione e sospetto le mosse di quei grandi Ceo che negli anni hanno messo le mani sull’informazione, come Jeff Bezos (Amazon) proprietario del Washington Post o Marc Benioff (Salesforce) di Time, e ora che Elon Musk si è comprato la scorsa settimana Twitter – per 44 miliardi di dollari – il senso di disagio in rete si fa sentire.

Certo Musk ha subito messo le mani avanti a difesa della libertà di espressione e della democrazia. La libertà di parola è il fondamento di una democrazia che funziona e Twitter è la piazza della città digitale in cui si dibattono questioni vitali per il futuro dell’umanità – ha dichiarato a valle dell’annuncio dell’acquisizione -. Voglio rendere Twitter migliore più che mai, arricchendolo con nuove funzionalità, rendendo gli algoritmi open source per aumentare la fiducia, eliminando lo spam e autenticando tutti gli esseri umani”.

Ma si sa che l’ex social network Twitter, “ex” perché oggi è molto di più rispetto a quando nacque a San Francisco nel 2006, è diventato un potente strumento di comunicazione, con il quale politici, governi, aziende, fanno dichiarazioni ufficiali, che vengono riprese come fonti da telegiornali, testate, opinionisti, controparti (ce lo hanno insegnato bene i bollettini in tempo reale su pandemia o guerra, le fake news, le elezioni). Non è dato per ora sapere il piano strategico di Musk, quali saranno le nuove regole che definirà per la libertà di espressione, ma è bene non dimenticare che Twitter in passato ha saputo anche esercitare la censura di profili (ad esempio quella di alcuni attivisti di Anonymous o di Donald Trump in occasione dell’assalto a Capital Hill nel 2020) e ha oggi 230 milioni di utenti attivi al mese (con più di 1,3 miliardi di profili).

Leggo su Internazionale del 27/28 aprile un articolo tratto da The Irish Times che ribatte sul concetto di democrazia: “Le piattaforme tecnologiche hanno creato alcune delle più grandi ricchezze del mondo, tra cui quella del cofondatore di Twitter, Jack Dorsey. Qualcuno potrebbe chiedersi che differenza fa se un social network passa da un miliardario a un altro. E’ proprio questo il punto: gli oligarchi della tecnologia controllano una parte consistente dell’infrastruttura di telecomunicazioni… Un’acquisizione dopo l’altra rischiamo di ritrovarci con una versione della democrazia che solo i ricchi possono permettersi”.

Ritrovo in un lampo di memoria l’attacco della mia tesi di laurea, era il 1990, relatore professore Nando Della Chiesa, titolo “Il controllo dell’informazione tra strategia di impresa e potere politico. La stampa quotidiana in Italia (1960-1990)”. L’incipit lo devo a una citazione da Restituire lo Scettro al Principe di Giovanni Pasquino (1986).  Seppure si parlava di Italia e di giornali di carta, ritrovo che la questione sia molto simile anche ora che il mondo dell’informazione si è spostato sul web. Non abbiamo fatto progressi. 
“Proprio perché condivido l’opinione di Thomas Jefferson – è preferibile una situazione nella quale esistono giornali e non ci sia un governo rispetto a quella in cui esista un governo ma non ci siano giornali – ritengo che il mutare dei tempi renda indispensabili la tutela e la promozione del pluralismo fra le fonti di informazione proprio e soprattutto come contrappeso alle gradi concentrazioni economiche e al potere di accesso, di ricompensa e di censure che il governo, qualsiasi governo è tentato a esercitare”.

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