La pandemia ha impattato tutte le sfere di vita dei cittadini, con riflessi importanti soprattutto sul mondo del lavoro. L’accelerazione della digitalizzazione con il ricorso a forme di lavoro agile e la crescente dislocazione dei flussi lavorativi stanno infatti comportando sempre maggiori cambiamenti all’interno del tessuto economico-produttivo e nelle dinamiche del mercato lavorativo, sia lato domanda che lato offerta.
Quali sono gli effetti di questo mutato scenario sul mondo della formazione. Lo ha indagato Gruppo Cegos nel suo osservatorio annuale “Transformations, skills and learning” che coinvolge circa 380 professionisti HR (di cui 60 italiani) e oltre 4.000 dipendenti (di cui circa 500 italiani), distribuiti tra Francia, Germania, Spagna, Portogallo, Singapore, Brasile e Italia.
Il digitale al centro della formazione
La ricerca di un cambio totale di carriera per dare maggior significato alla propria vita professionale è il primo fenomeno evidente che emerge, anche in Italia, dove tre quarti dei lavoratori sarebbero disposti a prendere in considerazione l’ipotesi.
A fronte della volontà di cambiamento e nell’ottica di affrontare nuovi contesti lavorativi, il dipendente tende a voler colmare le proprie lacune o ad acquisire nuove competenze da poter mettere in gioco, adattandosi alle nuove esigenze di mercato. In questo contesto, le maggiori sfide sono rappresentate dal digitale (61%), dalle nuove modalità di lavoro (52%) e dalla cybersecurity (39%), seguite dalla diversity & inclusion e dalla transizione ecologica, temi che secondo gli HR Manager impatteranno maggiormente il futuro del mondo del lavoro.
Ma la richiesta di maggiori competenze da parte dei lavoratori si scontra spesso con una risposta inadeguata da parte delle imprese, segnala Cegos. Solo il 40% dei lavoratori ritiene infatti che l’organizzazione soddisfi le proprie esigenze di formazione immediate e il 42% pensa che il feedback da parte del datore di lavoro arrivi troppo tardi rispetto a quando si è manifestato il bisogno formativo.
Fondamentale per le aziende è quindi intensificare gli sforzi sulle attività di formazione. Per questo i responsabili della gestione del personale si stanno attivando per organizzare programmi di retraining, seppure solo il 24% di loro abbia già implementato delle misure in tale direzione.
La sfida non è infatti semplice. Lo conferma il 55% dei responsabili delle risorse umane che ritiene sia difficile far corrispondere i bisogni di competenze della propria organizzazione con l’offerta di formazione, un sentiment che si incrementa del 10% rispetto al 2021.
“L’esperienza acquisita con la crisi sanitaria sembra abbia per certi aspetti rassicurato le aziende sulla loro capacità di resilienza e di adattamento. Non va però abbassata la guardia – commenta Emanuele Castellani, Ceo di Cegos Italy & Cegos Apac –. Sono in atto molte trasformazioni sul lavoro e sono tutte legate allo sviluppo delle competenze: transizione ecologica, diversità e inclusione, futuro e significato del lavoro, impatti tecnologici sulle professioni, nuovi modelli di gestione. In queste sfide al centro vi s1ono l’occupabilità degli individui e le performance delle organizzazioni”.
HR, i gap da colmare
I programmi di formazione che gli HR Director devono realizzare si basano su quattro driver: le sfide che riguardano ruoli e competenze della propria organizzazione, la variazione della business strategy, le esigenze individuali e le esigenze delle linee di business.
I gap da colmare riguardano per il 41% degli HR Director (+8% rispetto al 2021) soprattutto le competenze digitali, così come le competenze manageriali (39%, in aumento del 6% vs 2021), seguite dalle soft skill; tra queste ultime, l’organizzazione efficiente del lavoro, la creatività e il senso dell’innovazione sono in cima alle priorità dei dipendenti, mentre agilità e adattamento sono le priorità per i professionisti HR.
L’apprendimento blended e quello online rimangono i favoriti dai referenti HR. Il 60% di loro (+10% rispetto al 2021) ha attivato negli ultimi due anni corsi di formazione online, il 49% corsi blended e il 41% corsi in aula.
Per tutti, i temi prioritari sono essenzialmente la personalizzazione dei percorsi formativi e la diversificazione delle modalità formative. Per i dipendenti la formazione dovrebbe infatti contemplare anche simulazioni e applicazioni on the job. Tra le nuove modalità formative, suscitano crescente interesse tra i decisori HR: l’adaptive learning (45%), il social learning (42%) e il design thinking (41%). I data learning risultano invece una leva essenziale seppur poco utilizzata; il 37% degli HR manager afferma di usarli per migliorare l’esperienza di apprendimento e l’11% di non utilizzarli affatto.
A livello di Kpi monitorati, la user satisfaction (per il 61%), e i learning outcome (55%) sono le priorità, mentre l’impatto sulle performance rimane al quarto posto con il 45%.
Oltre all’upskilling si affermano approcci di reskilling per la mobilità interna, considerati dal 60% dei responsabili del personale come un possibile rimedio alle crescenti difficoltà nel reclutare e trattenere i talenti.
Il 90% dei dipendenti sembra anche disposta all’autoformazione, un trend costante negli ultimi tre anni; le imprese si stanno di fatto attivando per incoraggiare i “serial learner”, così come il 64% di loro sente lo sviluppo delle competenze una responsabilità condivisa tra azienda e lavoratore (59% degli HR, +16% rispetto al 2021).
Si registra infine una minore preoccupazione rispetto ai lavori a rischio obsolescenza per i prossimi tre anni, considerato preoccupante per il 20% degli HR, rispetto al 25% del 2021 e del solo 12% del campione dei dirigenti in Italia) e ciò vale anche per i dipendenti (il 23% teme di vedere scomparire il proprio lavoro, in calo de -7%).
“Di fronte ai cambiamenti in atto e al crescente interesse dei dipendenti nello sviluppo delle proprie competenze – afferma Castellani –, le organizzazioni devono essere in grado di offrire una gamma di opportunità di formazione, mobilità e riqualificazione dinamiche e chiare e devono renderle anche più visibili internamente per incoraggiare un maggiore coinvolgimento dei dipendenti. Un’attenzione particolare va riservata ai “serial learner” capaci di influenzare positivamente i colleghi e che potrebbero rappresentare una grave perdita di competitività se non ascoltati, soprattutto alla luce dell’impennata di dimissioni dell’ultimo anno, spesso legate alla ricerca di condizioni più vicine alle proprie aspettative e valori”.
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