Oltre 10 incontri, 50 relatori, 20 ore di condivisione di opinioni, prospettive e anche critiche, per fare il punto sul mondo del lavoro nel nostro Paese. Gli Stati Generali Mondo Lavoro Italia fanno parte del format nato nel 2019 su impulso di Pier Carlo Barberis con l’obiettivo di mettere in rete tutti gli attori appartenenti a settori chiave del lavoro e dell’economia in Italia. Per l’iniziativa, è tempo di bilanci facendo tesoro anche di oltre un anno di appuntamenti verticali (prima digitali e poi anche in presenza) per seguire da vicino l’evoluzione rapida che la pandemia ha imposto al mondo del lavoro italiano.
Proprio nel momento dell’emergenza si è accentuato il gap tra le competenze richieste dalle aziende e quelle offerte dai lavoratori e dalle università, in particolar modo in Italia. La carenza di competenze in ambito Stem, ma anche la mancanza di dialogo tra gli enti formativi, insieme alla scarsa qualificazione dei lavoratori – con il crescere degli impieghi esecutivi che saranno ulteriormente esposti ai rischi per l’affermarsi dell’automazione – fanno emergere un quadro complesso e critico per cui poter pensare alla soluzione dei problemi in una prospettiva sostenibile è ancora più sfidante. Anche perché a questi temi si accostano quelli relativi al sottodimensionamento del contributo delle donne, ed alle scarse politiche a sostegno del lavoro a fronte di più politiche a sostegno del reddito.
Tra le riflessioni più interessanti durante la prima giornata dei lavori, proprio quella di Cesare Damiano, consigliere di amministrazione Inail, presidente Lavoro Welfare e già ministro del Lavoro, che distingue tra quantità e qualità della ripresa: “La spinta quantitativa è sotto gli occhi di tutti, bruciando persino le tappe delle previsioni economiche, ma quello su cui bisogna lavorare adesso è la componente qualitativa. Il lavoro che arriva è perlopiù a tempo determinato perché in Italia, in un modo o nell’altro, finisce per costare meno del lavoro a tempo indeterminato. Esattamente l’opposto di come dovrebbe essere. Inoltre ]…[, si registra un continuo aumento di infortuni sul lavoro, malattie professionali e addirittura morti sul lavoro”.
Damiano lancia quindi una proposta al Governo: “Inail ogni anno risparmia un miliardo/un miliardo e mezzo di euro che provengono dalle tasse ovvero i premi assicurativi che gli imprenditori corrispondono per la prevenzione. Il totale accumulato ad oggi è pari a 34 miliardi di euro. Non sarebbe meglio trasformare questi risparmi dell’Inail in risorse per la prevenzione anziché accumularli presso la Tesoreria dello Stato a rendimento zero? Se queste somme non fossero restituite alle imprese che le hanno pagate e ai lavoratori per migliorare le condizioni di sicurezza e gli indennizzi alle vittime di infortuni, malattie professionali e alle famiglie di chi perde la vita sul lavoro, sarebbero una “tassa occulta sulle imprese”.
Lavoro, alla ricerca di competenze
E tra i temi più urgenti torna quello dell’incontro tra formazione ed impresa, da una parte proprio a partire da luoghi fisici di incontro, ma anche con una serie di riflessioni sulle possibilità di “riformare la formazione” a partire da una ricetta che comprenda cambiamenti anche nel comparto degli ammortamenti sociali, del partenariato pubblico/privato, e per una formazione duale che coinvolga giovani e imprese, interventi a difesa delle categorie più sofferenti e reskilling dei lavoratori senior.
Al riguardo Francesco Rotondi, management partner di LabLaw Studio Legale, spiega: “Non c’è solo un mismatch tra lavori che emergono e competenze, ma anche una pruderie ideologica che impedisce di approdare a soluzioni concrete, buttando via a ogni cambio di governo tutto quello che è stato fatto dal predecessore. È il momento di una revisione del contratto di lavoro ma non nella direzione di una riduzione dei diritti, piuttosto di una riforma di tempi, orari, luoghi di lavoro, retribuzione e anche formazione”.
I numeri intanto dicono che il cosiddetto talent shortage, cioè la mancanza di competenze richieste dalle industrie, in Italia è pari all’85%, tasso tra i più alti a livello mondiale, triplicato negli ultimi 5 anni (fonte: Manpowergroup con EY e Pearson), mentre l’80% delle attuali occupazioni è destinato a mutare nel futuro prossimo, anche per l’impatto di AI e delle tecnologie di machine learning.
Durante la seconda giornata dei lavori, aggiunge “carne al fuoco” dei dibattiti l’incontro tra gli 8 Competence Center attivi in Italia e voluti dal Mise, per il trasferimento di tecnologie d’avanguardia alle imprese, specie alle Pmi, con formazione di tecnici e di management, orientamento e consulenza, e per favorire sperimentazioni innovative attraverso l’offerta di linee produttive pilota per il “test before invest”.
Emerge come nei prossimi 30 anni il tasso di automazione passerà dal 33% al 50%, cifre che si riverbereranno sulla perdita del lavoro per milioni di italiani, mentre l’impatto potrebbe essere di gran lunga inferiore se le aziende decidessero di aggiornare le competenze dei propri dipendenti che non possono essere in grado di lavorare e “studiare in autonomia” contemporaneamente. Servono invece risorse di visione e di change management che non ci sono, dove proprio il management deve rendersi conto che il cambiamento parte dai board e si riflette nei processi e nelle modalità di lavoro.
Lavoro agile e smart working, per esempio, non possono essere semplicemente inseriti come opzione nel contratto di lavoro vigente ma cambiano anche il ruolo dell’ufficio. “Se è agile il lavoro, deve diventare agile anche il design del luogo di lavoro da desk-centered a activity-centered – spiega Luca Brusamolino, Ceo Workitect – smartworking expert –. L’ufficio sarà sempre più un luogo di confronto e di condivisione, quindi ci saranno sempre meno scrivanie personali, più salette per il team working, project room, sale riunioni on demand e aree relax. Il rapporto tra spazi operativi e sale riunioni, che prima del Covid era 75% a 25%, nei prossimi anni tenderà verso un 70% di luoghi activity-based, intesi come luoghi di condivisione, e 30% desk”.
Con alcuni capisaldi cui riservare attenzione, però, come specifica Luisa Errichiello, ricercatrice Cnr-Ismea, quando spiega che “se la scrivania in passato è stato un luogo di identità, il lavoro agile ora va organizzato anche da questo punto di vista e deve essere centrale il ruolo dell’azienda per ricreare senso di appartenenza. Anche se viene meno la continuità spaziale. Un ruolo che durante l’emergenza pandemia con l’home working le aziende hanno mancato”. Lo smart working mal interpretato distruggerebbe poi le opportunità di accedere a quell’intelligenza collettiva per cui la somma degli addendi, nel lavoro è in verità superiore agli addendi stessi.
Gender equality e sostenibilità
Gender equality e sostenibilità, infine, sono gli ultimi due temi chiave nei giorni dell’iniziativa. Sul primo punto: il nostro Paese è sotto la media europea per l’accesso delle donne al mondo del lavoro – dato al palo con il 49% – ma la situazione è ancora peggiore per quanto riguarda la presenza di donne in posizioni apicali. Se è vero che lo smart working potrebbe offrire maggior accesso al lavoro femminile, potrebbe invece non aver alcun impatto sul problema delle figure apicali. Nel mondo, secondo Accenture, la parità di genere sul lavoro si raggiungerà nel 2171 (era prevista nel 2121 fino a prima del Covid) mentre sembra che in Italia si possa sperare nel 2061.
Ma l’Italia, in ogni caso, sul tema della parità di genere il Paese è l’ultimo in Europa, sia per la barriera culturale, legata a una vecchia concezione di ruoli e attitudini di genere, sia per la diffusione straordinaria di Pmi rispetto a grandi società multinazionali nelle quali le direttive verso la parità di genere arrivano dagli stessi head-quarter, con precisi protocolli e sistemi di misurazione, mentre le imprese che rispettano le differenze, anche di genere, è documentato ottengano risultati economici migliori e abbraccino prima e meglio le innovazioni di prodotto e di sistema.
Per quanto riguarda il tema della sostenibilità, il convegno ne evidenzia le sue tre dimensioni chiave: ambientale, sociale e corporate. Secondo i dati Wef l’interesse verso la sostenibilità da parte dei pubblico – consumatori, lavoratori e risparmiatori – è crescente, dal 43% del 2015 al 75% di oggi. Nel mondo del lavoro si registra come le aziende sostenibili diano migliori risultati di fatturato e di rendimento, tanto che tendono a essere preferite dagli investitori, sia per la migliore resa economica, sia per le maggiori opportunità di agevolazioni e premialità pubbliche ormai vincolate a criteri di sostenibilità.
Offre una chiave di lettura Tatiana Mazali, Politecnico di Torino, che riporta e commenta l’interessante disamina del World Economic Forum sul concetto di sostenibilità sul lavoro, centrato su 3 principali criticità: impatto dell’automazione del lavoro, smart working, disuguaglianze.
Alla perdita di posti di lavoro attesa nel tempo a causa dell’automazione, l’emergenza non ha fatto corrispondere una creazione di “nuovi” posti, oggi servono quindi più competenze Stem e IT Italia ma servono anche più soft skills che però attengono maggiormente alla sfera di sviluppo della persona che a percorsi scolastici: risoluzione dei problemi, autogestione delle difficoltà, pensiero critico, tolleranza allo stress, flessibilità, apprendimento attivo.
Sostenibilità d’impresa significa quindi rispetto per l’ambiente, per la società e per le persone. Nel senso più esteso e ampio. La diversità è un plus per le imprese. Marilena Ferri, People&Culture director Manpowergroup: “Scegliendo di attingere il proprio personale da una platea più ampia di generi e culture, le imprese hanno più probabilità di incontrare eccellenze ed evitare lo spreco di energie di chi deve nascondersi o proteggersi dal giudizio della gente, energie che potrebbero invece essere infuse nella qualità del proprio lavoro”.
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