“In questi mesi, durante l‘emergenza e le criticità, aziende ed organizzazioni non hanno smesso di pensare al futuro. Un futuro che è stato definito di volta in volta nuova normalità, next normal, e sarebbe invece importante considerare semplicemente come normalità migliore, pensata sulla base delle lezioni appresecosì Roberta Bigliani, Group VP, Head of Insights and Future of Work Practice Executive Lead, Idc Europe, apre Future of Work 2021, a sottolineare il necessario cambio di prospettiva, soprattutto per quanto riguarda il mondo del lavoro “con al centro le persone e modellizzato per il raggiungimento effettivo degli obiettivi (purpose driven)”.

Prima della pandemia appena il 3% della forza lavoro operava da remoto, questa percentuale sarà del 66% da qui al 2023, anche dopo la fine della pandemia. Si tratta di numeri che pongono sfide importanti. Le aziende che accelerano la digital transformation, si trovano ad affrontare sfide inedite in termini di tecnologia, processi, policy e sostenibilità, ed è per questo indispensabile ripensare il modo in cui viene svolto il lavoro.

Il cambiamento è culturale, non solo di abitudini e processi. I lavoratori sono chiamati ad operare come team dinamici e riconfigurabili in grado di adattarsi rapidamente alle esigenze aziendali e ai nuovi requisiti di mercato, in ogni momento e da ogni luogo. Una ricerca Lenovopresentata nel corso dell’evento, evidenzia tra i trend principali del futuro del lavoro l’effettiva creazione di forza di lavoro flessibile, la capacità di accelerare la realizzazione di luoghi di lavoro moderni e la progettazione di sistemi “a prova di futuro” per garantire la continuità aziendale.

Spunti concreti da innestare però all’interno di quella che Bigliani definisce proprio come una “bussola orientativa”: con al centro la persona e il raggiungimento degli obiettivi, che ha come punti cardinali non solo la criticità attuale ma anche ripresa economica, innovazione digitale, sostenibilità. Bigliani considera prioritari quattro aspetti: L’agilità dell’organizzazione, una leadership empatica, l’hybrid workplace e una “forza lavoro aumentata”.

La bussola Idc per orientarsi e tendere al “better normal”

Il vecchio modello “command and control” si rivela oggi del tutto inadeguato, e la capacità di prendersi cura delle persone creando un rapporto empatico con i dipendenti è indispensabile. Lo confermano i numeri: entro il 2021, “il 65% della forza lavoro includerà considerazioni sulla salute oltre a valutazioni sociali, ambientali e umanitarie tra i criteri chiave in materia di occupazione”.

Si tratta anche di ripensare il modello comunicativo che non può essere più di tipo trasmissivo di mandati e task, di tipo “top-down”, ma richiede invece flussi orizzontali di condivisione e richiede che “i processi tradizionali stessi passino in secondo piano, rispetto alla capacità di raggiungere gli obiettivi”

Oggi i lavoratori si devono muovere seguendo processi complessi, magari con tecnologie obsolete; spesso devono risolvere gli ostacoli sul percorso ricorrendo a manualità inutili. Si pensi all’onboarding di clienti, dipendenti, ma anche alle tante informazioni disponibili, di fatto non utilizzate perché non contestualizzate. Ripensare i processi, automatizzarli in ottica workflow, renderli intelligenti, fornire alle persone quello di cui hanno bisogno, per questo, dovrebbe rappresentare già oggi la pista principale da seguire”.

Roberta Bigliani, Group VP, Head of Insights and Future of Work Practice Executive Lead, Idc Europe
Roberta Bigliani, Group VP, Head of Insights and Future of Work Practice Executive Lead, Idc Europe

Bigliani sottolinea che in un ambiente in cui viene valorizzata l’esperienza del dipendente, il processo “consolidato nel tempo” potrebbe non rappresentare più un riferimento cogente. Allo stesso tempo, “le tecnologie dovrebbero amplificare e non sostituire le capacità cognitive e fisiche dell’uomo”, in uno scenario “collaborativo tra uomo e macchina.

Certo anche il nuovo posto di lavoro è del tutto da ripensare. I dati evidenziano come le modalità di lavoro ibrido caratterizzino oggi l’approccio europeo, mentre negli Usa è più evidente l’orientamento verso il lavoro remoto e la regione Asia/Pacifico è più orientata ancora al lavoro on-site. In ogni contesto è prioritario risolvere i problemi di “parità tecnologica”, e consentire “non tanto il bilanciamento tra vita privata e professionale quanto piuttosto l’armonizzazione dei due contesti”. Almeno per quanto riguarda il primo punto, già oggi i numeri di Idc svelano che il 75% delle grandi aziende è effettivamente impegnato a fornire parità tecnologica alla forza lavoro ibrida. 

Grazie alle tecnologie potrebbero cadere anche alcuni luoghi comuni. Per esempio, la possibilità di abilitare il lavoro da remoto è meno vincolata di quello che si potrebbe pensare a specifiche professioni. I dati infatti evidenziano come anche in ambito manifatturiero e nelle utility sia possibile la riduzione della forza lavoro on-site. I numeri di Idc dicono che entro il 2023 nel manifatturiero sarà possibile ridurre del 30% il personale on site, grazie all’utilizzo delle tecnologie AR/VR. Ancora più significativo il dato secondo cui entro il 2025, anche in ambiti particolarmente “fisici”, come per esempio le trivellazioni, sarebbe possibile ridurre del 50% il personale sul campo.

Oggi però solo il 38% delle organizzazioni sta effettivamente ridisegnando i modelli a supporto del lavoro ibrido, in un contesto in continua ed accelerata evoluzione se si considera come, entro il 2022, il 45% delle attività lavorative ripetitive nelle grandi imprese sarà automatizzato o potenziato utilizzando i cosiddetti “colleghi” digitali (basati su AI robotica) ed entro il 2025, oltre il 40% delle G2000 (le prime 2.000 aziende al mondo quotate in Borsa, secondo la classifica Forbes) affiancherà allo staff dei dipendenti i “digital coworker”, in grado di affiancare l’uomo per facilitarne la navigazione attraverso vasti ecosistemi di informazioni e dati e la relativa interazione. 

Serve quindi rivedere gli obiettivi aziendali per quanto riguarda formazione ed expertise“Contrariamente al passato – sottolinea ancora Bigliani – bisogna ripensare a una possibile idea di formazione dinamica, collegata effettivamente ai reali obiettivi anche sfruttando abilitatori digitali come l’AI, in un contesto coerente di skilling e reskilling“.

Elementi critici
Ridefinire il lavoro per incrementare il valore aziendale (fonte: Idc)

In sintesi: la complessità dei processi, la dotazione tecnologica non al passo con i tempi, l’inefficienza delle procedure manuali, la difficoltà ad accedere ai dati o ad utilizzarli nel modo corretto ed infine l’overload di informazioni non strutturate e non valorizzate rappresentano gli ambiti più sfidanti su cui lavorare.

Lavoro agile, serve rivedere i processi

Temi analizzati anche da Sebastiano Fadda, presidente Osservatorio Nazionale sul Lavoro Agile, Inapp, in particolare nel considerare“La prima prospettiva di osservazione del fenomeno smart working era legata all’emergenza, ma ci accorgiamo come di fatto si trattasse di una prospettiva sbagliata”. Le possibilità di estendere le forme di telelavoro/lavoro agile/lavoro ibrido sono in continua evoluzione ed abbracciano oggi nuove professioni anche grazie all’utilizzo delle tecnologie emergenti che impattano per esempio diversi ambiti (telemedicina, e-commerce/logistica, ma anche sorveglianza e assistenza remota). Anche per questo oggi il lavoro agile non è più una nuova modalità di prestazione lavorativa, della stessa attività, ma deve essere letto come nuova possibilità di organizzazione dei processi produttivi”.

Sebastiano Fadda, presidente Osservatorio Nazionale sul Lavoro Agile, Inapp
Sebastiano Fadda, presidente Osservatorio Nazionale sul Lavoro Agile, Inapp

La trasformazione del lavoro “va svincolata quindi da vecchie concezioni ed è strettamente collegata all’utilizzo delle nuove tecnologie –  automazione, robotica, AI con le nuove catene di valore legate all’interconnettività globale a suggerire non poche nuove opportunità”. L’organizzazione dei nuovi processi produttivi richiede anche capacità e abilità nuove“La capacità di trasformare e applicare le tecnologie per adattarle a qualsiasi organizzazione e verticale – prosegue Faddasarà tra i compiti di una nuova figura che andrà affermandosi, quella del technology managercolui che studia come utilizzare le tecnologie per trasformare i processi di lavoro”.

E’ un passaggio importante anche cercando di immaginare come privato e PA possono in futuro “far parte di un medesimo “circolo virtuoso”. Fadda: “Serve prima di tutto un’armonizzazione della frontiera tecnologica su cui operano entrambi i mondi, oggi assente. Si pensi anche solo alla gestione dei processi burocratici, alle mancate sinergie nell’utilizzo dei dati. Servono tecnologie per consentire alla PA di dialogare con le imprese e i privati cittadini e la creazione di reti in grado effettivamente di consentire il cambio di passo nello svolgimento delle procedure”. Per questo bisogna ridisegnare i processi in questo senso, altrimenti non si riusciranno mai ad “accorciare i tempi di erogazione dei servizi”.  Linguaggio, tecnologie e reti comuni e armonizzati sono quindi indispensabili.
“L’applicazione di nuovi modelli di produzione, abilitata dalle tecnologie, comporta poi importanti conseguenze sulla regolazione dei rapporti di lavoro, impatta sul tema delle retribuzioni, sui sistemi di controllo della prestazione lavorativa, sull’asimmetria informativa tra datore di lavoro e lavoratore, in un contesto in cui si parlerà sempre meno di leadership gerarchica e sempre più di leadership di gruppo. Alcuni di questi temi certo richiedono nuove regolamentazioni. Conclude Fadda: “Meglio puntare su poche definizioni legislative di cornice, e profondere energie sulla capacità di regolare le singole realtà, lavorando sulla flessibilità concessa dalle contrattazioni decentrate”. 

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