Doppio legame, stretto, tra vita e digitale. Che in settimana si è scoperto fragile e vulnerabile.

Fragile perché è bastato un errore umano di configurazione del provider Fastly sulla rete di Content Delivery Network a fare cadere centinaia di siti e a innescare a catena il rallentamento dei siti di contenuti tra i più popolari al mondo. Fragile perché il blackout della rete – non legato questa volta a un attacco cybercriminale ma semplicemente a un’azione umana maldestra – ha messo in risalto come la fragilità del digitale esista e possa essere improvvisa (nel caso non ce ne fossimo accorti) e venga amplificata dalla consuetudine di affidarsi tutti ai medesimi cloud provider, per lo più americani, senza promuovere la differenziazione dei fornitori e la creazione di una rete maggiormente distribuita di cloud pubblici, con nodi in grado di evitare il dilagare dei danni e le cadute di connettività. Fragile, per cui un errore di configurazione come nel caso di Fastly può rendere irraggiungibili testate in tutto il mondo, dal New York Times, al Corriere, al Guardian, al Financial Times, siti come Spotify o social network come Pinterest e Twitch. Fa pensare.

Fragile perché non tutto il mondo digitale è adeguatamente protetto: “Il 95%% dei server della PA non è in condizioni di sicurezza” ha affermato Vittorio Colao, ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale, server sui quali noi cittadini mettiamo in nostri dati.
Fragile perché l’App IO, al centro della spinta della trasformazione digitale pubblica per far dialogare PA e cittadini, non è stata autorizzata per ora dal Garante della Privacy come strumento per ospitare il Green Pass vaccinale per rischio di violazione della privacy (l’utente non può disattivare dei tracker indispensabili per utilizzare l’app). E se da una parte noi ci allarmiamo per la custodia e l’utilizzo dei nostri dati, reazioni a catena pungenti contro la privacy si sono alzate a più voci (dal ministero di Colao con un botta e risposta tra ministero e garante, all’economista Vincenzo Visco, al parlamentare Carlo Calenda, fino al direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, che accolla all’impossibilità di utilizzare alcuni dati dei contribuenti, coperti da privacy, gli scarsi risultati della fatturazione elettronica). Pareri che mettono in discussione aspetti legati al diritto alla privacy di cui l’Italia è da sempre paladina, mentre continuano ad accadere furti inaccettabili: 7.395.688 dati di persone vaccinate sono stati messi sabato in vendita sul Dark Web.

Privacy e sicurezza non sono certo la stessa cosa. Ma sono entrambi necessarie per poter gestire dati di qualsiasi tipo, non solo proteggendoli dal furto ma anche dallo scorretto utilizzo.
Ora che si sta ragionando sulla razionalizzazione dei data center della pubblica amministrazione, sulla creazione di una rete di cloud nazionale spinta anche dal Pnrr, sulla necessità di rendere i dati interoperabili tra le varie amministrazioni pubbliche a beneficio anche della salute dei cittadini stessi, la privacy deve rimanere un diritto certo così come la gestione corretta dei dati deve essere sicura.

Tra i tanti commenti circolati sul tema nel weekend, ne riporto solo uno di Stefano Epifani, docente di Internet Studies alla Sapienza di Roma e advisor internazionale sui temi della sostenibilità digitale, che ha postato su Twitter: “La speranza è che quello che è successo con quei 7mln di record trafugati insegni agli strenui difensori del ‘diamo tutti i dati alla PA tanto li ha anche Google’ che il tema non è a chi darli, ma è che certi dati non vanno dati. E gli altri vanno gestiti bene. Anzi vanno gestiti”.

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