Parlare di “robotica morbida” può sembrare un ossimoro o una contraddizione in termini: quando pensiamo a un robot, automaticamente visualizziamo un meccanismo metallico, o comunque solido, molto rigido di un corpo umano. E tuttavia le cose stanno cambiando: è nata una branca della robotica caratterizzata dalla morbidezza e plasmabilità delle sue strutture, i cui robot si prestano a scopi molto diversi da quelli tradizionali.

La soft robotics, robotica morbida, fa parte del gruppo delle tecnologie bioispirate; nate cioè dall’imitazione della natura. Sempre più spesso i ricercatori vanno a cercare le soluzioni tecnologiche ai loro problemi tra quelle che già esistono nel mondo animale e vegetale, ottimizzate da milioni di anni di tentativi ed errori.

Tra i ricercatori che hanno portato la soft robotics al centro dell’attenzione c’è Barbara Mazzolai, che già dieci anni fa era inclusa nella lista delle “25 donne geniali della robotica” stilata dalla rivista online Robohub. Mazzolai ha creato robot bioispirati che hanno fatto scuola, come il famoso “plantoide”.

Un robot dalle sembianze di una pianta

Il plantoide è un robot che prende ispirazione dalle piante, che sono in grado di crescere indefinitamente per tutto il corso della loro esistenza. Il suo scopo è quello di esplorare il suolo. L’idea era quella di creare un sistema che si adattasse al suolo molto meglio di qualunque animale, e che fosse un network: non una semplice sonda, piantata nel suolo, ma una rete di radici che cresce. La direzione della crescita dipende da sensori inseriti nelle punte delle “radici”. Il robot cresce infatti dalla punta, le radici altrimenti non riuscirebbero a muoversi nel suolo dove pressioni e attriti sono elevati anche a pochi centimetri di profondità.

Esempio di Plantoide - Credits Istituto Italiano di Tecnologia - © IIT all rights reserved
Esempio di robot plantoide (fonte: Istituto Italiano di Tecnologia)

Per la prima volta un robot è in grado di costruire il suo stesso corpo. La tecnologia è quella di una stampante 3D, che però si trova all’interno del robot stesso. Un filo di materiale termoplastico viene trascinato da un motore, viene ammorbidito attraverso un termoresistore e depositato a contatto con la punta della radice. A muoversi deve essere solo la punta. Per curvare, il robot aggiunge più materiale da un lato rispetto all’altro, creando una crescita differenziale come quella delle radici. Si tratta di un paradigma totalmente nuovo per la robotica: movimento attraverso la crescita. A mano a mano che il robot cresce crea una struttura, come fa una radice, che in questo caso è cava e dovrebbe permettere di inserire al suo interno ulteriori sensori, o una telecamera. Robot simili potrebbero essere utili non solo nell’esplorazione del suolo, ma anche in medicina. Il movimento della radice, che si adatta al corpo senza danneggiare ciò che la circonda, potrebbe infatti essere molto utile come endoscopio del futuro. Ovviamente una soluzione simile richiederebbe anni per essere realizzata, però potrebbe avere sviluppi interessanti. È una tecnologia che può essere applicata in molti altri settori.

Robot come semi

Un altro esempio di tecnologia bioispirata è stato realizzato più di recente dall’equipe di Mazzolai. Si tratta di Acer i-Seed, minuscoli dispositivi la cui forma è ispirata a quella dei semi alati dell’acero. Come i semi, infatti, sono dotati di una singola pala che durante la caduta imprime al seme un’autorotazione, rallentandone la discesa e permettendo la dispersione su un’area molto più vasta. Gli Acer i-Seed vengono prodotti attraverso stampa 3D, utilizzando per la struttura un materiale basato sull’acido polilattico (Pla), che è totalmente biocompatibile e biodegradabile. Nel materiale vengono incorporate particelle di elementi lantanoidi non tossici. Lo scopo degli Acer iSeed è di monitorare la temperatura del terreno. Per farlo, vengono sparsi sull’area da monitorare da un drone volante; la forma dei semi robotici permette loro di planare sul terreno spargendosi in maniera uniforme. A quel punto, entrano in gioco le particelle lantanoidi, che generano una fluorescenza proporzionale alla temperatura. Il drone è in grado così di captare la luminescenza emessa e di creare una mappa della temperatura del suolo. La bellezza della soluzione è che si genera una rete di sensori molto fine e precisa, ma che non richiede installazione, né fonti di energia, e non diffonde materiali potenzialmente inquinanti: è sufficiente sparpagliare gli Acer i-Seed, che funzionano senza bisogno di fonti interne di energia e, una volta usati, si biodegradano senza inquinare. Un altro esempio in cui la natura fornisce soluzioni semplici a cui ispirarsi.

Integrazione uomo robot

Il plantoide e gli Acer iSeed sono solo due delle numerose tecnologie realizzate da Mazzolai e dai suoi collaboratori per esplorare nuove strade ispirate dalla natura nella robotica. Sono esplorazioni affascinanti che daranno vita a forme di robotica completamente nuove in un futuro ancora da venire. Ma la soft robotics ha anche utilizzi più immediati che trovano applicazione già nel presente. Per esempio, il laboratorio di Soft robotics for Human Collaboration and Rehabilitation dell’Iit diretto da Antonio Bicchi, si propone di passare dalla collaborazione uomo-robot all’integrazione uomo-robot: costruire una tecnologia in cui la persona e la macchina intelligente convivono e vanno a costituire un unico sistema.

Tra gli obiettivi c’è quello di aiutare le persone con disabilità fisiche, creando protesi che si integrino meglio con la persona e che non siano mal tollerate, ma siano invece delle alleate per la vita di tutti i giorni. L’ambizione è quella di creare una bionica che venga percepita come naturale dalle persone: un’integrazione che deve riguardare sia la parte fisica, con materiali in grado di deformarsi e adattarsi all’ambiente esterno, così come fa il nostro corpo, e che perciò vengano riconosciuti come simili a sé dalla persona che li usa; sia la parte dei sensori, che devono offrire informazioni altrettanto ricche di quelle che ci fornisce il nostro corpo; sia infine per la parte dell’intelligenza: queste protesi devono avere un’intelligenza autonoma che ci aiuti nei nostri compiti.

La robotica degli avatar

Ma l’approccio del laboratorio va anche al di là della prostetica. Per esempio nella riabilitazione, con alcune sperimentazioni con persone che soffrono le conseguenze di infarti, ictus e simili. Ma anche con robot destinati a integrare persone nel pieno possesso delle loro funzioni, in modo da dare loro una nuova dimensione “aumentata”, specialmente coloro che svolgono mestieri in condizioni di pericolo. È la robotica degli “avatar”: sistemi di robot che possono essere “abitati” da essere umani, dando loro la possibilità di operare in modo sicuro in un mondo lontano da quello in cui si trovano, come se fossero teletrasportati in un‘altra vita.

Esempio Robot AlterEgo
Esempio di robot Alter-Ego (fonte: Istituto Italiano di Tecnologia)

Questo perché i robot che oggi sappiamo costruire non sono ancora in grado di decidere quali operazioni compiere, come affrontare l’infinità di possibili circostanze che si possono prospettare. Rimane indispensabile avere il parere tecnico, le capacità e il background tecnico-culturale dell’ispettore umano, che però vanno trasportati nell’ambiente senza che la persona sia esposta al pericolo.

Questo ha portato a creare una famiglia di robot, gli Alter-ego, che sono teleoperabili a distanza. Sono concepiti perché usarli sia un’esperienza molto naturale, in quanto soccorritori e caregiver non devono essere obbligati a fare studi complicati per imparare a usarli. Ė sufficiente indossare un visore, tipo Oculus, e alcuni semplici dispositivi che permettono di avere una reazione tattile, per capire cosa sta toccando il robot. La persona che indossa il robot può muovere la testa e indirizzare lo sguardo, vedendo quello che vede il robot in tre dimensioni. Dopo pochi minuti di questa esperienza le persone “diventano” il robot, c’è una totale immedesimazione: si ha la sensazione di essere “dentro” al robot.

Manutenzione a distanza

La sperimentazione di queste tecnologie va verso una sempre maggiore integrazione tra l’essere umano e la macchina: l’intelligenza artificiale verrà usata per rendere sempre più naturale l’uso delle funzioni robotiche da parte dell’utilizzatore che “abita” il robot. Quando noi prendiamo in mano un oggetto e lo manipoliamo, per esempio, non decidiamo consciamente la posizione di ogni dito della mano, sono calcoli che il nostro cervello esegue a livello inconscio. I robot del futuro dovranno rendere altrettanto spontaneo l’uso di arti robotici, e anche lo sfruttamento di sensori diversi o più precisi rispetto a quelli umani, che potrebbero rivelarsi molto utili per valutare situazioni di emergenza.

Ma l’uso degli avatar robotici non è limitato solo alle situazioni di pericolo, e in un futuro non lontano potrebbe diventare di uso comune in varie situazioni lavorativi. Per esempio, un tecnico manutentore, invece che viaggiare per centinaia di chilometri per visitare le varie strutture di sua competenza, potrebbe limitarsi a teleoperare robot a distanza. È un caso di studio che Iit ha già davvero sperimentato, facendo teleoperare un robot in un impianto di un noto internet provider con sede a Milano, con l’operatore che si trovava a Bergamo e che ha sostituito una scheda in un impianto a Genova. Sono, quindi, soluzioni che sarebbero realizzabili già oggi.

*Marco Passarello, giornalista, caposervizio presso Tgr Rai Alto Adige.

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