Citofono. E’ Amazon! Chi non ha l’ha usata per fare acquisti in questi mesi di lockdown scagli la prima pietra, contribuendo a trasformare Amazon (nonostante inefficienze, ritardi, prezzi, logistica in difficoltà) nel leader indiscusso delle piattaforme di e-commerce anche nel nostro Paese. Un colosso da 280,5 miliardi di dollari di fatturato a livello mondiale nel 2019, di cui il 27% raccolto in Europa, il 61% in America e il 12% legato ai servizi cloud di Aws. Un giro d’affari che fa del suo fondatore, Jeff Bezos, uno degli uomini più ricchi al mondo, diventato ancora più ricco in queste settimane di lockdown come riporta l’analisi dell’Institute of Policies Studies di Washington (basata sul Bloomberg Billionairs Index) che mette in fila chi si è arricchito maggiormente durante le settimane buie. Ai primi cinque posti: Jeff Bezos, Ceo di Amazon (+25 miliardi), Elon Musk, Ceo di Tesla (+ 5 miliardi), MacKenzie Bezos ex moglie di Jeff (+8,6%), Eric Yuan ceo di Zoom (+2,58 miliardi), Steve Ballmer ex ceo di Microsoft (+2,2 miliardi).
Ma non è questo il punto, anche se l’analisi vale la lettura. Ma il fatto che Amazon come altri colossi del web, che in Italia producono fatturati milionari, ne attribuiscono solo una piccolissima parte al nostro Paese, una anomalia che consente a queste realtà di versare al nostro fisco pochissime imposte. Amazon non è la sola. E’ quanto ribadito dal centro studio di Cgia di Mestre che in settimana è tornato su un tema al quale Italia ed Europa non riescono a dare risposta da tempo.
Lo studio ha monitorato le filiali italiane di 16 grosse big tech prima dell’emergenza sanitaria: Amazon, Adp, Alibaba, Alphabet, Booking, Expedia, Facebook, Microsoft, Oracle, Otto, Qurate Retail, Salesforce, Sap, Uber Technologies, Vipshop e Apple.
Secondo l’analisi, nel 2018, l’aggregato di queste controllate in Italia ha fatturato 2,4 miliardi di euro (pari allo 0,3% del fatturato mondiale delle Websoft) dando da lavorare a quasi 10mila persone in Italia. Ma al fisco italiano questi colossi dell’hi-tech hanno fatto pervenire poche “briciole” dei 2,4 miliardi: solo 64 milioni di euro.
Un dato che Cgia confronta con quelli delle micro e piccole imprese (con meno di 5 milioni di euro di fatturato) che hanno generato un volume d’affari di 926,7 miliardi (con 10 milioni di addetti) ma che hanno versato all’erario un contributo fiscale di quasi 39,5 miliardi di euro. Un importo di 600 volte superiore al gettito versato dalle multinazionali del web.
“Ormai è diventata una questione di giustizia sociale. Grazie al boom dell’e-commerce, in questi due mesi di lockdown le multinazionali del web presenti in Italia hanno aumentato i ricavi in misura esponenziale, mentre la grandissima parte delle piccole imprese è stata costretta a chiudere l’attività per decreto – dichiara Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio studi d Cgia -. Se ai primi il peso delle tasse continua a rimanere insignificante, ai secondi il carico fiscale ha raggiunto livelli non più sopportabili che il Decreto Rilancio è stato in grado di alleviare solo marginalmente. In altre parole: è giunto il momento di introdurre una web tax a livello europeo per far pagare il giusto anche a questi giganti tecnologici”.
Il centro studio di Mestre rimane inoltre molto critico con altre grandi imprese nel nostro paese “che hanno lasciato l’Italia per trasferirsi nei Paesi Bassi” in particolare con Fca (che vorrebbe avvalersi di misure introdotte dal decreto liquidità) ma anche con Eni, Enel, Luxottica, Illy, Ferrero, Saipem, Telecom Italia, Cementir. “Questi grandi gruppi – precisa Renato Mason, segretario Cgia – non si sono trasferiti per sfruttare le aliquote fiscali ridotte di cui l’Olanda comunque non dispone, ma per i bassissimi prelievi presenti sui dividendi, sui guadagni da cessioni/partecipazioni e sulle royalties. Sarebbe quindi opportuno che anche l’Italia, così come ha fatto la Francia, decidesse di escludere dai contributi statali le società con sedi nei Paesi che offrono una fiscalità di vantaggio”.
Certo le varie Amazon o Facebook, le varie Microsoft o Oracle, si muovono secondo la legge in vigore, non infrangono normative, non abusano. Ma forse mai come ora l’esigenza di stabile una Web Tax è più che mai doverosa. In un momento in cui le tecnologie digitali e le nuove modalità di acquisto e di fruizione di beni hanno dato a queste aziende una ulteriore spinta al loro fatturato. E le nuove abitudini acquisite in tempi di lockdown faranno parte della nuova normalità, che porterà sì a rivedere modelli di vendita, filiere e servizi anche degli operatori italiani, ma nel tempo.
Al citofono per ora continuerà a suonare il corriere di Amazon… non perdiamo ulteriore tempo nel definire le leggi.
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