In questi giorni sui social media è stata condivisa da circa 9.000 persone la foto dello storico concerto dei Pink Floyd a Venezia, non già per celebrare il ventottesimo anno dalla data dell’evento, ma al fine di strumentalizzare l’immagine a fini anti-migratori, su Facebook è stata raccontata come un porto libico stracolmo di migranti pronti a “salpare per l’Italia”.
Il fenomeno delle fake news è una delle problematiche, insieme alla mancanza di accurate informazioni ed approfondimenti relativi al fenomeno migratorio che, nell’ultimo periodo, caratterizza il nostro Paese.
Proprio al fine di colmare tale gap informativo la scorsa settimana si è tenuta la conferenza legata alla Big Data for Migration Alliance (BD4M) che ha discusso il potenziale utilizzo dei Big Data per prevedere i flussi migratori e, soprattutto, per prevenire le violazioni dei diritti umani. L’aggregazione dei dati che si trovano in rete viene abitualmente utilizzata da aziende per analizzare le preferenze dei clienti, minimizzare i rischi e, di conseguenza, aumentare la propria produttività, tuttavia ci sono anche alcuni progetti volti all’utilizzo dei Big Data in campo internazionale, ad esempio, per combattere focolai di malattie nei Paesi del terzo mondo.
Una delle iniziative più interessanti, denominata Global Pulse, è stata lanciata nel 2009 dalle Nazioni Unite e ha permesso al Ministero della Salute ugandese di acquisire informazioni relative a potenziali fattori di rischio di malattie come le precipitazioni, la densità della popolazione o la mobilità della stessa. I Big Data vengono utilizzati anche come strumento per contrastare la tratta di esseri umani e la schiavitù. Ne è un esempio il progetto no profit Polaris (https://polarisproject.org/) che sfrutta l’analisi dei dati per identificare tali fenomeni ed informare le forze dell’ordine utilizzando database di testimonianze delle vittime per individuare con sempre maggiore certezza l’eventuale violazione di diritti umani.
D’altro canto, trattandosi di un nuovo ambito di applicazione, l’utilizzo dei Big Data per prevenire i flussi migratori non è – allo stato attuale – in grado di risolvere tre ordini di problematiche: la politica dei numeri, l’eterogeneità metodologica, la distinzione in base alla nazionalità.
Politica dei numeri
Con “politica dei numeri” s’intende il modo in cui gli interessi istituzionali e i governi nazionali determinano le decisioni su come vengono contati i migranti e quale tipo di dati vengono alla fine distribuiti al pubblico. Esemplare è stato il caso dello scandalo di corruzione in merito agli aiuti ai profughi dell’Uganda del 2017 ove le ONG hanno accusato il governo ugandese di gonfiare il numero di rifugiati per ricevere maggiori aiuti finanziari dai donatori internazionali.
Eterogeneità metodologica
La seconda problematica è relativa alla metodologia utilizzata per quantificare l’oggetto dell’analisi.
L’uso di diverse definizioni, metodi e fonti di dati da parte di diversi istituti rende il confronto dei dati internazionali particolarmente difficile e confuso. Ad esempio, secondo i dati di Eurostat, il Regno Unito rilevava 42.403 immigrati dalla Polonia nel 2015, mentre la Polonia ha riferito di aver rilevato solo 11.682 emigranti nel Regno Unito.
Distinzione in base alla nazionalità
Le difficoltà relative alla metodologia utilizzata si intersecano con la difficoltà nel determinare la provenienza nazionale dei migranti. Questa problematica è dovuta al fatto che la migrazione riguarda una questione centrale della sovranità nazionale: l’autorità rivendicata dagli Stati per decidere nelle rispettive giurisdizioni i termini e le condizioni di ingresso dei migranti. Ciò si traduce in diversi regimi di migrazione in tutti gli stati nazionali, compresi diversi modi di individuare le categorie (migranti e richiedenti asilo) nonché di contarli. Dal momento che le politiche migratorie sono modellate e sono fonte di identità e distinzione nazionali “l’armonizzazione delle statistiche e della politica in materia di migrazione e asilo è controversa“, come giustamente osservato da Marianne Takle, professore dell’Università di Oslo.
Nel loro insieme, le tre problematiche illustrate dimostrano la difficoltà dei Big Data nell’incidere nella complessa materia della regolazione dei flussi migratori che dovrebbe essere affrontata parallelamente dal punto di vista politico e tecnologico. Quindi è irrilevante la novità dei metodi utilizzati di per sé, ma l’aspetto veramente incisivo è dato dal “come” e “chi” li sviluppa.
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