Nel 2019 oltre la metà della popolazione mondiale ha avuto la possibilità di collegarsi al Web (4,1 miliardi di persone). Un risultato importante ma parziale, che Robert Pepper, head of global connectivity policy and planning di Facebook, utilizza per richiamare gli sforzi necessari a far sì che tutti dispongano di un collegamento online.
La fonte di partenza dei dati, infatti, è uno studio commissionato proprio da Facebook all’Intelligence Unit dell’Economist, un Inclusive Internet Index (99 Paesi, circa 5mila intervistati) aggiornato ora per il 2020 con le informazioni da 100 Paesi a rappresentare il 91% della popolazione ed il 96% del Pil globale.
Ad oggi restano sostanzialmente esclusi dalla sfera digitale circa 3,5 miliardi di persone, che non dispongono di Internet, e delle relative opportunità che la rete offre. Nei Paesi a basso reddito la crescita per l’accesso a Internet invece di accelerare rallenta, per cui per il 2020 si prevede un’ulteriore penetrazione appena del 3,8%.
Mentre nei Paesi più svantaggiati solo 1 famiglia su 10 accede alla Rete rispetto a quasi 9 famiglie su 10 dei Paesi ricchi. Migliora la connettività già nei Paesi a medio reddito, ma sostanzialmente gli esclusi ad oggi restano ancora esclusi.
Tra i dati interessanti esposti dal report quello relativo al costo della connettività da mobile che in tutti i Paesi a basso reddito è sensibilmente superiore al benchmark del 2% del reddito mensile procapite fissato come accettabile. Pepper in proposito sottolinea: “Un Gigabyte di dati costa circa l’11,5%. Troppo, tanto più che nei Paesi più ricchi in proporzione costa meno”. Anche il divario di genere resta significativo, marcato nei Paesi a basso reddito per cui il 34,5% della popolazione femminile ha meno probabilità di avere accesso alla Rete, questo divario persiste anche nella media di tutti i Paesi considerati (13%).
Tra le note positive quella relativa alla possibilità, già oggi, anche per i meno avvantaggiati di disporre in qualche modo di una certa indipendenza finanziaria e di accedere a condizioni di lavoro migliori.
Quello che non è consentito dalle banche tradizionali locali, sembra lo sia dalle fintech con la proposta dei servizi online, “tanto che persino nell’Africa Subsahariana – commenta Pepper – il 62% degli intervistati con lo smartphone controlla conti, trasferisce denaro ed effettua pagamenti”. Mentre il 68% degli intervistati dei Paesi a basso reddito ha potuto fruire di migliori prospettive di carriera grazie alla Rete. Così come sono differenti gli scopi d’uso, con il 72% dei residenti nei Paesi a basso reddito che utilizza Internet per migliorare le proprie competenze, rispetto al 62% dei residenti nei Paesi ricchi.
Sulla scorta di questi dati vengono sottolineate le difficoltà di diverso tipo per includere i 3,5 miliardi della popolazione globale esclusa, e l’importanza di “andare oltre la regolamentazione delle telecomunicazioni legacy per consentire modelli di business nuovi in grado di stimolare l’ingresso nel mercato di attori non tradizionali con nuovi investimenti e soluzioni”.
Viene citato quindi l’esempio del Perù che con un operatore in grado di portare l’infrastruttura in zone rurali ha innescato nuove partnership e investimenti da parte di Telefonica e di Facebook appunto, fino a raggiungere 6mila nuove comunità, prima non collegate.
Non è l’unico esempio, e tra gli altri alimentati da Facebook si potrebbe citare anche il progetto Tip (Telecom Infra Project) addirittura del 2016 per lo sviluppo di tecnologie alternative volte a riuscire a scalare la connettività anche dove è più difficile, con partner del calibro di Nokia, T-Mobile, etc.
L’inclusività della rete, a chi serve?
C’è da fare però una serie di precisazioni. Per esempio quella relativa al dato per cui il bisogno della Rete non cresce di pari passo con quello della fiducia “nella” Rete. Il 47% degli intervistati si fida delle informazioni online dai governi, ma la percentuale scende al 34% per i siti Web non governativi, e al 28% per quanto pubblicato sui social media. Tra cui Facebook.
Il tema dell’inclusività rappresenta poi solo la punta dell’iceberg dei reali obiettivi di Facebook, che più che a tutto il resto è interessata ai dati che sono l’unico vero motore delle sue economie.
Ecco, per questo forse la reale questione dell’inclusività richiede di riflettere se sia virtuoso e sostenibile un modello di sviluppo acceso sulla base dell’esigenza di macinare più dati, di allenare gli algoritmi e di fare cassa con la pubblicità. Di sicuro gli interessi degli hyperscaler in questo senso sono troppo alti per rinunciare a “neutralizzare” lo sviluppo della Rete, in modo che la sua crescita non sia legata agli interessi di pochi.
Non sarebbe da dimenticare, ed è anche sotto gli occhi di tutti, che Facebook stessa è strutturata in modo tale da tenere gli iscritti il più possibile sulla propria piattaforma praticamente con possibilità minime di condivisione dei contenuti pubblicati sulla piattaforma nel Web, quasi a generare una sorta di Internet parallela. E non è questa la Rete “inclusiva” che immaginiamo. Un ulteriore recente studio di Facebook riporta poi che in alcune nazioni per circa 8 dollari al mese si sarebbe disposti a condividere con il social network il saldo bancario… Ecco, possiamo pensare che oltre al lavoro per offrire la Rete a tutti ci sarebbe da lavorare anche per insegnare il valore dei dati.
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