Oltre che nell’immediato, Coronavirus produrrà effetti significativi anche ad emergenza conclusa. L’epidemia ha dimostrato in brevissimo tempo, ma in modo importante, la fragilità di un modello di globalizzazione fondato comunque sulla dipendenza da pochi Paesi come fornitori “unici” di diversi settori.
Da un lato l’economia cinese è riconosciuta come indispensabile (come sottolinea in un recente studio l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) ed inutile sarebbe qualsiasi tentativo di isolamento, dall’altro l’interdipendenza tra Cina e resto del mondo crescerà ancora nel tempo. L’emergenza inoltre ha spinto le aziende a riorganizzarsi, riorganizzare la supply chain, la modalità di lavoro, e non è pensabile che a crisi finita “tutto torni come prima”. Allo stesso tempo i Paesi si attrezzeranno in alcuni comparti per ridurre le dipendenze critiche dall’estero e potrebbe profilarsi all’orizzonte una fase di “degobalizzazione” per quanto parziale.
Gli effetti di Covid-19 sulle aziende italiane
In Italia cresce la preoccupazione delle aziende che devono affrontare gli effetti della pandemia sul business e stanno studiando diverse strategie per rimanere attive. A questo proposito sono interessanti gli ultimi dati Doxa che fotografano la situazione attuale. Tra il 9 e il 16 marzo, la ricerca Bva-Doxa – condotta su un campione di 301 realtà italiane (metodologia Cawi) – evidenzia che il 76% delle aziende ha registrato impatti negativi immediati, mentre il 20% prevede di riscontrarne gli effetti dal mese di aprile.
Per circa il 66%, l’emergenza impatterà sul business interno. Mentre il 45% ritiene che si troverà ad affrontare un calo particolarmente significativo, del 10%.
Meno precise invece sarebbero le possibilità di previsione sugli effetti per quanto riguarda l’export. Il 34% del campione non sa ancora esprimersi sui futuri scenari, anche se ben il 43% delle aziende che dichiara già di osservare ripercussioni negative anche sull’export.
Si parla di effetti stimati, in ogni caso, rilevanti in ugual misura sia per le aziende di dimensioni più piccole (meno di 50 dipendenti), sia per le grandi, con oltre mille dipendenti.
Con una specifica: per il 77% delle Pmi si verificheranno importanti diminuzioni della domanda domestica, mentre per il 56% di quella oltre confine (la percentuale supera la totalità tenendo conto delle aree di sovrapposizione).
Dovrebbero subire ridimensionamenti importanti gli investimenti dedicati a marketing e comunicazione, con la metà delle aziende pronta a ridurre le attività pubblicitarie. Ma un’azienda su quattro dichiara invece che incrementerà le attività di marketing, mentre il 41% sfrutterà il “momentum” per mantenere o aumentare la propria presenza sui media. Molto positiva, l’invece, l’adozione della modalità di smart working con due aziende su cinque che proseguiranno nell’adozione del lavoro agile anche ad emergenza finita.
In particolare per quelle attive nei settori finance, utility e telecomunicazioni, i cambiamenti organizzativi introdotti in questo periodo saranno continuativi anche a emergenza finita. Pur rimodulandone ovviamente le modalità. Da questo punto di vista i dati sono più che confortanti.
Il 73% delle aziende tricolore ha introdotto lo smart working in maniera “massiva”, ovvero applicato al maggior numero di persone. Lo hanno fatto soprattutto le multinazionali straniere con sede in Italia (con il 90% in smart working, anche per l’attivazione antecedente alla crisi di modalità di lavoro agile). Invece le italiane hanno scoperto, in alcuni casi “obtorto collo”, che lo smart working funziona. E’ il 90% ad esprimere un giudizio favorevole, sia per quanto riguarda l’efficienza sia per la gestione ottimale dell’attività lavorativa.
Non favorevole il sentiment per quanto riguarda il futuro. Oltre il 67% delle aziende esprime timori circa ripercussioni consistenti per un lungo periodo di tempo. Con solo un terzo delle aziende più ottimista che vede la risoluzione della crisi nel giro di qualche mese.
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