Di Web Tax e Digital Tax si parla da anni. Non si contano nemmeno più le false partenze, così come l’attesa per un pronunciamento definitivo dell’Ocse. E’ un dato di fatto che, solo in Italia, a fronte di ricavi crescenti dal 2018 sempre superiori ai 2 miliardi di euro, la raccolta di tasse per appena 64 milioni, anche se parzialmente poi compensati dalle iniziative delle procure, evidenzia uno squilibrio netto e crescente tra i profitti effettivamente realizzati dalle più importanti società di servizi digitali e il contributo fiscale versato.

In questo contesto la Francia, per prima, ha deciso pochi giorni fa di rompere gli indugi e richiedere ai big del digitale il versamento di imposte relative al 2020 per milioni di euro. Una mossa congegnata ad hoc nella tempistica proprio per sollecitare un accordo alla nuova amministrazione Biden e uscire dall’empasse che caratterizza il tema. Per una questione in verità che è da tempo di carattere non solo europeo – non riguarda solo la Francia – quanto piuttosto transnazionale (Brasile e Indonesia pure si sono già mosse in questa direzione). Ora sarebbe un evidente segnale di coesione una mossa concertata che vedesse almeno i Paesi UE coinvolti fare fronte comune, tanto più in un contesto come quello attuale in cui il tema della sovranità europea su dati, cloud e digitale e quello di una cybersecurity comune muovono passi significativi in avanti.

Le big tech in questi anni sono riuscite ad evitare il pagamento delle tasse vendendo servizi non specificatamente legati al “territorio” e quindi spostando le entrate nei Paesi dove è in vigore una tassazione vantaggiosa, mentre l’idea alla base di una Digital Tax equa sarebbe che il regime fiscale applicabile dovrebbe corrispondere a quello della geolocalizzazione dell’indirizzo IP del dispositivo con cui viene sottoscritto il servizio.

La Francia si sta muovendo ora richiedendo ad una serie di aziende (non solo extraeuropee) il versamento delle imposte relative al 2020, sulla base di una legge ad hoc di imposizione fiscale basata sul fatturato maturato con i servizi digitali; all’inizio dell’anno l’imposizione è stata congelata in relazione ai negoziati richiesti sulla questione dagli Usa che però poi l’amministrazione Trump ha interrotti a giugno.

Emmanuel Macron, presidente francese
Emmanuel Macron, presidente della Repubblica francese

Di fatto la Francia in questi giorni ha semplicemente deciso di “rompere gli indugi” prima di una serie di Paesi, non solo europei, per i quali è giunto il momento di porre fine ad uno stato di stallo che va avanti oramai da troppo tempo. Tra i Paesi che hanno deciso di rompere gli indugi, ma di fatto ancora senza strappi, c’è anche il Canada, che annuncia una tassa alle aziende che forniscono servizi digitali, ma da gennaio 2022 ed in vigore fino a quando non si sarà effettivamente trovato un accordo.

Nei prossimi giorni a Bruxelles i Paesi UE dovrebbero concordare il lancio di un appello al nuovo presidente Usa, mentre a livello interno, è notizia di questa settimana, l’approvazione di un accordo per cui il fisco dei Paesi Ue può scambiarsi informazioni sui fatturati dei diversi vendor di servizi attraverso le piattaforme digitali.

Se è un dato di fatto che la questione sulla tassazione dei profitti delle big tech si protrae oramai da oltre tre anni, proprio questa attesa fa storcere il naso ora verso la possibilità di ulteriori rinvii a tempo indeterminato. Ma è evidente anche che, se le mosse di questi giorni dovessero portare a qualcosa – alla possibilità di nuovi accordi tramite l’Ocse per esempio –  si riparlerebbe della questione non prima di sei mesi. Di fatto lo stallo favorisce solo le big tech, come è stato fino ad ora.  

I governi sono fortemente interessati a considerare in tempi stretti un’azione comune, che avrebbe maggiore efficacia, anche solo in relazione all’incremento dei profitti ottenuti dalle big tech nell’ultimo trimestre. Per Amazon si parla di profitti cresciuti di quasi il 200% anche in relazione alla pandemia in corso, mentre Google ha incrementato di quasi quattro miliardi di dollari i ricavi pubblicitari e di un miliardo quelli relativi ai servizi cloud. 

L’amministrazione Trump, ora fuori scena, non ha mai nascosto l’avversione verso la Digital Tax e nemmeno nascosto l’intenzione di ricorrere a ritorsioni commerciali nei confronti di quei Paesi che l’avessero applicata. Vale per la Francia, vale così anche per il nostro Paese, come è stato ricordato agli inizi di novembre dal Mef. E tuttavia non sarebbe vantaggioso nemmeno per gli Usa tenere aperto un fronte ulteriore in cui si combatte a colpi di dazi doganali. 

L’aliquota del 3% sul fatturato per i gruppi con ricavi superiori ai 750 milioni di euro (i gruppi non sono tenuti a dichiarare i profitti) sembra rappresentare un punto di riferimento comune nelle diverse proposte di tassazione e non può essere considerato semplicemente un balzello. Queste aziende, tra le altre cose, spesso vantano progetti di sostenibilità e social corporate responsability avanzate; durante la pandemia hanno annunciato piani ad hoc per favorire la business continuity e potenziato i servizi in questa direzione, ma anche l’impegno fiscale a vantaggio proprio di quei Paesi dei quali si vuole sostenere la digitalizzazione a nostro avviso dovrebbe rientrare nei loro obiettivi più immediati. 

Ora serve quindi davvero un accordo condiviso, applicabile già nel 2021 e riconosciuto da tutti gli attori. E questo non è così semplice considerato come anche all’interno della stessa UE ci siano Paesi con regimi fiscali agevolati che non hanno interesse a procedere in questa direzione.

Le guerre dei dazi lasciano il tempo che trovano, ed è evidente  – a partire dai numeri – che i profitti delle big tech non ne risentirebbero certo da giustificare o rendere conveniente un disimpegno nei nostri mercati. In proposito sarà però importante vigilare anche affinché eventuali tassazioni, più o meno concordate, non si riflettano come sempre accade sui consumatori e sui clienti finali. Sarebbe come far pagare due volte, le aziende che abbracciano la digital trasformation, e alla fine gli utenti.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Condividi l'articolo: