Alcuni mesi fa ci siamo occupati della questione attinente alla trattativa in corso all’interno dell’Ocse che coinvolge 137 Paesi, facenti parte dell’Inclusive Framework – il programma Ocse contro l’elusione fiscale delle multinazionali – per trovare un accordo condiviso che porti all’adozione di una Web Tax internazionale, ossia una tassazione sui guadagni delle grandi aziende che operano online come Google, Amazon e Facebook.

Tale trattativa, fin dai suoi esordi, è risultata parecchio complessa poiché è apparso complicato, e lo è tutt’ora, riuscire a trovare un accordo che possa soddisfare le differenti esigenze dei Paesi coinvolti. Infatti, se alcuni di essi hanno fin da subito spinto per addivenire il prima possibile ad un accordo, lavorando contemporaneamente a singoli progetti nazionali per l’adozione di una tassa digitale nazionale, in attesa della conclusione dell’accordo internazionale, altri si sono sempre mostrati piuttosto restii ed hanno posto diversi ostacoli alla realizzazione di questo importante progetto fiscale internazionale.

Il risultato di una siffatta situazione si è tradotto in un ulteriore slittamento delle trattative per il raggiungimento di un accordo a metà 2021, che non fa altro che agitare gli animi dei più importanti soggetti coinvolti nell’ambito della trattativa. La riforma della fiscalità sui colossi del mondo digitale rientra nel progetto Beps (Base Erosion and Profit Shifting) che mira ad assicurare che le tasse siano pagate dove si svolgono effettivamente le attività economiche e a contrastare, quindi, il trasferimento degli utili verso Paesi con fiscalità agevolata o inesistente.

Il progetto sulla Web Tax, che prevede le medesime finalità, consentirebbe di definire quanto, dove e come tassare i colossi del Web. Tale necessità si è resa ancora più stringente durante la pandemia Covid-19 ma incontra forti ostacoli da diversi paesi, gli Usa primi fra tutti, che rendono ancor più difficoltosa la trattativa.

Angel Gurria, segretario generale Ocse
Angel Gurria, segretario generale Ocse

E’ ormai pacifico che si debba trovare un accordo multilaterale perché il rischio, stando a quanto affermato da Angel Gurria, segretario dell’Ocse, è che si venga a creare una proliferazione di tasse digitali unilaterali non coordinate ed un aumento delle controversie fiscali e commerciali che potrebbero portare ad una vera e propria guerra commerciale.

Nello scenario peggiore, una guerra commerciale provocata da tasse unilaterali sui servizi digitali internazionali potrebbe ridurre il Pil globale di oltre l’1% all’anno. Secondo un rapporto di aggiornamento dell’Ocse, l’introduzione di una Web Tax con un accordo condiviso a livello internazionale potrebbe comportare il conseguimento di due obiettivi, che altro non sono che i due pilastri su cu si fonda tale riforma.

Il primo prevede la creazione di un’aliquota minima mondiale (secondo gli ultimi calcoli al 12,5%) volta ad evitare la pratica del trasferimento dei profitti delle multinazionali digitali nei Paesi definiti “paradisi fiscali” o che comunque hanno una tassazione agevolata. Il secondo prevede di tassare i colossi del Web dove effettivamente operano e dove, di conseguenza, generano reddito. Secondo l’Ocse queste due misure consentirebbero di raccogliere tra i 60 e i 100 miliardi di dollari all’anno di nuovo gettito aggiuntivo da parte delle multinazionali.

L’Ocse ha raccolto il proprio lavoro in due documenti, che sono stati presentati e discussi lo scorso 14 ottobre durante la riunione dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali del G20. Il lavoro più tecnico, ad ogni modo, potrà essere approfondito solo quando si raggiungerà un accordo politico, che attualmente manca.

Nonostante lo slittamento delle trattative sul tema, l’Unione Europea non si è fermata e, stando a quanto riportato dal Financial Times, sta attualmente stilando una lista di circa venti grandi società del Web, che molto probabilmente includerà importanti aziende statunitensi come Apple e Facebook, che saranno soggette a regole più stringenti volte a frenare il loro potere sul mercato. Tali piattaforme dovranno rispettare norme più severe rispetto a quelle dei concorrenti più piccoli e fra tali norme ci sarebbero l’obbligo di condividere i dati con gli avversari minori e di essere più trasparenti sulla raccolta delle informazioni.

Il piano dell’Unione Europea è immediatamente successivo al rapporto antitrust del Congresso americano volto a prescrivere la fine dei monopoli delle Big Tech. Con tale rapporto, frutto di un lavoro  di oltre un anno di analisi, di oltre un milione di documenti e di ascolto e passaggio al setaccio di centinaia di testimonianze, la Sottocommissione Antitrust americana e la Commissione Giustizia da cui dipende hanno pesantemente accusato le grandi società del Web, tra cui Google e Facebook, di avere una posizione monopolistica, essendo state capaci di abusare della loro posizione dominante sulla frontiera digitale, dettando prezzi e regole per il commercio, motori di ricerca, pubblicità, servizi di social network ed editoria e hanno criticato anche le autorità antitrust statunitensi per non essere state in grado in questi anni di frenare il loro dominio.

Il report raccomanda, pertanto, al Congresso di valutare delle misure di risposta a tale situazione e propone anche una serie di modifiche alla normativa antitrust al fine di garantirne una sua rigida applicazione. Per conoscere se queste “iniziative intracontinentali” possano rappresentare un ulteriore incentivo per il raggiungimento di un accordo internazionale sulla definitiva adozione di una Web Tax bisognerà aspettare il 2021.

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