“Per le piccole e medie imprese italiane, il 2021 è stato un anno di profondo rimbalzo, in cui l’Italia ha recuperato quasi integralmente il gap creatosi nel corso della pandemia. Proseguito sulla stessa traiettoria il primo semestre del 2022, con risultati economici delle filiere Pmi in crescita, seppure in una fase di forte incertezza del contesto geopolitico con alcuni grandi fenomeni accelerati dalle crisi, a partire dallo shock energetico da una parte e dell’inflazione dall’altra”.
E’ Andrea Mignanelli, Ceo di Cerved Group, a delineare un anno in chiaroscuro delle Pmi italiane nel corso di Osservitalia 2022, alla presentazione del Rapporto Cerved Pmi 2022, la fotografia che la banca dati e di monitoraggio del grado di solvibilità e merito creditizio delle imprese italiane scatta ogni anno. Analisi che in questa edizione coinvolge 157.025 società, di cui 129.738 piccole imprese e 27.287 medie aziende.
Pmi, resilienti e reattive
I dati del Cerved evidenziano come, in uno scenario ancora incerto, le piccole e medie imprese italiane abbiano mostrato nel 2021 e continuino a mostrare nel 2022 grande reattività e capacità di adattamento, recuperando terreno dopo lo shock pandemico. A guidare questo trend, sono due gruppi di fattori; quelli endogeni che vedono negli ultimi anni le Pmi rafforzate dal punto di vista patrimoniale e quindi più solide e meno esposte finanziariamente rispetto alle precedenti crisi; dall’altro i fattori esogeni, rappresentati dagli interventi del governo a sostegno delle imprese statali e dalle aspettative positive generate dal Pnrr.
Il primo segnale di dinamismo si riscontra nella demografia d’impresa, che vede l’aumento nel 2021 delle Pmi attive, in numero di oltre 163mila rispetto alle 157mila del 2020 e alle 160mila del 2019, con un incremento del +4,2% anno su anno. Il secondo elemento di reattività si lega agli indicatori economici delle performance. Infatti, dopo un calo del -8,2% nel 2020, i ricavi crescono del +14,5%, superando del 5% i risultati del 2019. Anche il margine operativo lordo registra un valore in crescita di quasi il +24% sul 2020, così come la redditività netta recupera quasi interamente i livelli pre-covid, con un salto dall’8% all’11,8%.
Tra i settori trainanti la ripresa, in primis quello delle costruzioni che registra un +18% sul 2020 spinto dagli incentivi statali, seguito dall’industria che cresce del +16,4%; con trend positivo ma in misura inferiore anche i mercati servizi, energia, utility e agricoltura, quest’ultimo unico settore con una dinamica positiva anche nel 2020.
Un effetto della ripresa è associato alla maggior richiesta di credito. Cresce infatti il livello di indebitamento delle Pmi, favorito dalle garanzie pubbliche e dalle politiche monetarie accomodanti delle banche centrali sui tassi di interesse. Dopo il forte incremento del 2020 (+12,5%) l’indebitamento ha continuato a crescere anche nel 2021, seppure a tassi inferiori. I debiti finanziari si sono incrementati del +7% per le medie imprese e del +6% per le piccole. Nonostante il forte aumento dei debiti nell’ultimo biennio, il leverage delle Pmi è in continuo calo e passa dal 61,1% al 59,9%, al minimo storico.
“Di questi nove anni di studio, è il rafforzamento patrimoniale delle nostre Pmi una delle evidenze più importanti – interviene Fabiano Schivardi, professor of Economics, Luiss University inquadrando uno scenario temporale più esteso dell’analisi –. Il leverage, ovvero il rapporto fra debiti e mezzi propri delle imprese, è infatti sceso da circa il 120% nel 2007 al 60% di oggi e questo permette alle Pmi di cavalcare la ripresa. Si tratta di uno dei dati più sorprendenti e forse anche meno apprezzati, perché si dice sempre che le nostre Pmi sono sottocapitalizzate, ma sembra che questa informazione ormai faccia parte della storia”.
A confermare la tenuta finanziaria delle Pmi, anche le abitudini di pagamento di oltre 3 milioni di imprese monitorate dal Cerved, che evidenziano trend incoraggianti. Nel 2021, nonostante i fornitori abbiano imposto scadenze più rigide, si riducono i giorni di ritardo nei pagamenti e i mancati pagamenti, che dopo i mesi acuti della pandemia passano dal 41% di giugno 2020 al 23% del giugno 2022. Anche le Pmi che dichiarato operazioni di fallimento o procedure fallimentari e liquidazioni volontarie, calano del -14% rispetto al 2020, tendenza che si conferma anche nel primo semestre di quest’anno con un ulteriore calo del -15,8%, particolarmente accentuato nell’industria, un segnale di tenuta ma anche l’effetto di misure straordinarie.
Il sottobosco di imprese zombie
Cerved sottolinea però anche un fenomeno che definisce di “sottobosco” delle Pmi, ovvero circa 13.800 aziende stimate nel tessuto produttivo italiano con una struttura finanziaria fragile, Pmi “zombie” che potrebbero incorrere in situazioni di forte criticità, soprattutto se dovesse verificarsi un completo phasing out delle misure di sostegno alla liquidità. “Si tratta di imprese a bassa produttività – commenta Schivardi –, che immobilizzano asset, lavoro e capitale, e molto indebitate. Asset che potrebbero contribuire alla crescita se fossero utilizzati da imprese più efficienti, anche attraverso investimenti e acquisizioni. Una fragilità del mercato importante, a cui prestare attenzione, ma non drammatica oggi poiché il trend è in calo rispetto al 2020 (oltre 3mila unità)”.
“Nel 2023 le imprese dovranno attrezzarsi per affrontare in modo adeguato i cambiamenti che nel corso di quest’anno hanno ridefinito il quadro congiunturale dominato da un incertezza pervasiva che investe tutte le dimensioni del fare impresa – dichiara Antonio Angelino, responsabile Research, Cerved -. Questo ha un impatto molto importante sulle prospettive delle Pmi anche perché si innesta su una serie di criticità strutturali mai sanate che caratterizzano la nostra struttura produttiva, legate ad esempio alla frammentazione della struttura industriale e alla forte vulnerabilità che si registra in alcuni segmenti di mercato, come evidenzia la riacutizzazione dei divari tra imprese zombie e il resto delle Pmi”.
Transizione sostenibile e digitale
Le questioni sulla sostenibilità e sui i cambiamenti climatici rappresentano una sfida che se non governata rischia di diventare una seria minaccia per l’intera umanità. Questioni che sono infatti in cima nelle strategie delle imprese nell’adozione di politiche ambientali e industriali adeguate che facciano leva soprattutto sull’innovazione digitale.
In questa edizione dell’osservatorio, Cerved approfondisce queste tematiche analizzando lo stato di salute delle Pmi italiane sul fronte della sostenibilità e stimando l’impatto al 2050 degli scenari climatici sulle imprese.
Lo studia utilizza la metrica del climate change risk stress test della Bce – Banca Centrale Europea nel quale si prevedono tre scenari alternativi: la transizione ordinata, la transizione disordinata e l’assenza di politiche per la transizione.
“Proiettando i risultati economici delle singole Pmi italiane al 2050, abbiamo dedotto che lo scenario migliore per il Paese sia quello della transizione ordinata – dichiara Mignanelli –, che ha sì un costo ingente – 137 miliardi di investimenti che collettivamente le Pmi dovranno mettere in gioco nel primo decennio per centrare gli obiettivi di riduzione delle emissioni -, ma che è al tempo stesso quella che può dare i frutti migliori da un punto di vista del clima e della protezione dell’ambiente da una parte, e che è anche quella più fattibile dall’altra. Serve però uno sforzo congiunto anche delle banche, dei policy makers, oltre che delle singole imprese”, sottolinea il ceo di Cerved.
Le Pmi operano tendenzialmente in settori in cui la transizione ha un effetto più contenuto, spiega Letizia Sampoli, head Qualitative Risk Analysis and Forecasting, Centrale dei Bilanci, Cerved: “In termini settoriali, la distribuzione delle Pmi vede la dominanza del settore industriale, del commercio e dei servizi, ma rispetto alle grandi imprese le Pmi sono meno concentrate nei settori più impattati dalla transizione, fondamentalmente legati all’estrazione, ovvero tutta la filiera dei combustibili fossili, il settore dei trasporti e quelli legati a produzione di energia elettrica”. Un altro elemento da considerare riguarda il rischio fisico: complessivamente circa il 20% delle Pmi ha una classe di rischio fisico significativa, mentre il 13,2% è a rischio medio, il 6,7% a rischio alto e l’1,4% a rischio molto alto.
Interviene con un monito alle imprese Carlo Purassanta, executive vice president Ion Group (ed ex Ceo di Microsoft): “L’Italia dimostra di avere un tessuto produttivo ricco e resiliente ma il mio appello è oggi a una doppia lucidità: digitale e tecnologica, le due trasformazioni fondamentali del secolo. Ci sono tanti problemi da affrontare ma non dobbiamo distogliere l’attenzione su queste due trasformazioni perché stiamo vivendo la quarta rivoluzione industriale e se non la cavalchiamo qualcun altro lo farà. Abbiamo la corretta sensazione che ci sia stata un’accelerazione digitale delle aziende italiane, ma anche gli altri paesi sono andati molto veloci. Quindi non accontentiamoci di ciò che abbiamo fatto negli ultimi tempi perché abbiamo ancora alcuni anni di ritardo rispetto al resto d’Europa e pochi anni di ritardo sul digitale vogliono dire uno svantaggio competitivo importante”.
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