Per fare in modo che i progetti di trasformazione digitale siano efficaci è necessario conoscere non solo le tecnologie e gli abilitatori digitali disponibili, ma anche come mettere a terra i progetti. Vale anche, ancora, e soprattutto per un’architettura che oggi è consolidata e sicura, come il cloud ibrido. E’ questo un ambito su cui IBM concentra da tempo le sue risorse ed i suoi sforzi. Non a caso la parte più interessante ed impegnativa del lavoro di IBM riguarda proprio la capacità di incontrare clienti e partner per aiutare tutti a passare dalle fasi iniziali dell’adozione del cloud alla padronanza del cloud ibrido, approfondita, per la creazione di valore aziendale.
Ne parliamo con Patrizia Guaitani, Director Distinguished Engineer, Technical Sales Leader, IBM Technology, a partire dall’esperienza di IBM, che ha eletto l’hybrid cloud come modello architetturale di riferimento per i progetti di digital transformation.
La scelta hybrid cloud
“Quando gli altri parlavano semplicemente di cloud, IBM parlava già di hybrid cloud – esordisce Guaitani -. Questo perché come azienda da subito abbiamo avuto la possibilità di proporre sia soluzioni on-prem, sia in cloud: un portafoglio articolato che ci ha permesso di sostenere con una logica diversa il tema della trasformazione digitale con i clienti e già “ibrida” dall’inizio”.
Un percorso impegnativo per i clienti perché – soprattutto agli albori del cloud -, mentre tutti parlavano di “marketplace in cloud”, di servizi infrastrutturali (e non) pronti da attivare a consumo senza altri “ragionamenti”, ci si sarebbe dovuti attivare, invece, attenti ad una “logica di portabilità delle soluzioni, alla flessibilità delle stesse, ragionando su come sfruttare ciò che meglio avrebbe risposto alle esigenze di business e quindi a come soddisfare gli equilibri di esigenze infrastrutturali e tecnologiche, ‘ibride appunto”. Un termine, in verità, che comprende tantissime sfaccettature. “Il cloud ibrido, per quanto riguarda proprio il suo disegno, dovrebbe portare ad adottare tecnologie e risorse che rendano portabili e fruibili in tutti gli scenari, dall’on-prem al cloud di qualsiasi provider, i progetti e le soluzioni applicative disegnate“. Con livelli diversi di difficoltà, chiaramente, a seconda che si parta da applicazioni create nativamente per il cloud o ‘portate’ in cloud.
La maturità delle aziende
Le aziende oggi mostrano livelli diversi di consapevolezza/competenza su questi temi. “Ci sono aziende che hanno saputo strutturarsi da sole, cioè che dispongono di ‘architecture team’ al loro interno, a volte anche decisamente molto preparati”. Altre realtà, invece, sono ancora immature ed in questi casi è necessario costruire tutto da zero. “La difficoltà è sì disporre delle persone giuste, ma anche far leva su un ecosistema preparato e sufficientemente pronto a trasferire competenze e conoscenze“.
Il valore oggi, oltre alla disponibilità della soluzione tecnologica, “è disporre di tutti gli strumenti che servono per mantenere alta l’osservabilità su infrastrutture e applicazioni e spostare i workload in modo sicuro ed efficace”, disporre delle logiche As-a-Service quando servono ma soprattutto avere “un approccio attento alle persone” che dovranno poi supportare l’implementazione e la messa a terra di tecnologie per decidere l’adozione delle quali “in alcuni casi vediamo manca il coinvolgimento di tutto il team, che invece rappresenta un passaggio chiave per il successo dei progetti”.
A frenare lo sviluppo dei progetti oggi vi sono ancora problematiche di sicurezza, carenze di competenze, e conformità. Di cloud però si parla da oltre dieci anni.
Ci spiega Guaitani: “Lo scenario delle nostre realtà da questo punto di vista è decisamente variegato. Sempre meno sono le realtà completamente chiuse a questo tipo di trasformazione. Invece, anche solo dieci anni fa, c’è stato chi ha sposato subito l’approccio cloud ‘a cuore aperto’, per poi fallire nei progetti” – proprio per un approccio sbagliato all’idea di migrazione delle applicazioni -. “Chi invece è partito più lentamente (per esempio banche e finance), ha elaborato progetti di lungo respiro (anche in relazione alle esigenze di compliance) ed ha abbracciato quindi tecnologie, strumenti, regole quando erano più maturi, con relativi vantaggi anche in relazione al tema della gestione e della sovranità e della sicurezza del dato”. Un tema quest’ultimo indirizzato da IBM già dagli inizi con la crittografia del dato. “Ecco. Chi è partito con una prospettiva di ‘orizzonte’ – prosegue Guaitani – ora si trova molto avanti nella realizzazione dei suoi progetti di trasformazione ‘anche’ in cloud, utilizzando il cloud stesso per migliorare le proprie performance pure in termini di sostenibilità ambientale“.
Oggi la maturità delle aziende si misura anche dal fatto che non si parla più di cloud sì o no, quanto piuttosto si vuole capire dove convenga sviluppare una nuova applicazione, quali strumenti servano, dove è opportuno che essa eroghi i servizi per cui è pensata. Cercando di indirizzare quindi anche il tema della complessità e dei “costi”, anche di lock-in, e relativi alla necessità di migrare applicazioni non containerizzate e non native-cloud.
“Il grande vantaggio che IBM offre – e questo anche prima dell’acquisizione di Red Hat – è di proporre tutte le soluzioni con alla base Red Hat OpenShift, quindi la logica della containerizzazione, che è uguale se si lavora sui mainframe on-premise, come in qualsiasi altro ambiente. Tutto quello che viene sviluppato si può quindi decidere poi di spostarlo senza dovervi di fatto mettere mano”. Nel caso delle applicazioni non native cloud “serve invece un progetto di seria trasformazione e una serie di valutazioni su cosa val la pena di riscrivere”. IBM offre in questo caso una serie di applicazioni tra cui “IBM Hybrid Cloud Mesh che permette di connettere e trasferire i dati ovunque essi siano, di far leva sugli strumenti di “automation” e disporre di un’unica interfaccia che permette di vedere e di far parlare le varie componenti di tutte le applicazioni”. Un punto fondamentale.
L’importanza dell’ecosistema IBM
Vale in ogni caso che, per un cloud efficiente, alle aziende clienti servono le competenze dei partner e la disponibilità di un ecosistema robusto. “Quello di IBM c’è sempre stato – spiega Guaitani – e ha sempre lavorato tanto, anche se nel tempo in modalità diverse e a seconda della proposizione tecnologica. Sulla parte software – anche in relazione alla vastità del catalogo ed alle frequenti acquisizioni – con canale e partner continuiamo a fare un importante lavoro basato sulla collaborazione e sulla co-creation, così come con i clienti, per raggiungere tutto il territorio”. I business partner sono quindi il principale interlocutore con i clienti finali, una sorta di “cervello armato”, fondamentale, affiancato da “persone dei team IBM, per ogni brand, e da gruppi tecnici che hanno come ruolo e mission di lavorare con i clienti finali, ma solo con un partner presente”. Per questo si parla di una vera e propria sorta di “training on-job” per il partner, come per i tecnici, “perché chi lavora su clienti finali da più tempo, può apprendere modalità di comunicazione, di processo, etc. crescere e di imparare qualcosa in più”. E le aziende mostrano di apprezzare sia la presenza del partner tecnologico, sia del vendor che ha creato le soluzioni, con uno scambio proficuo tra clienti, partner e IBM stessa.
Risolvere la complessità del cloud
IBM porta sul mercato con i partner tutte le soluzioni necessarie a risolvere le complessità degli scenari ibridi multicloud. Tra queste IBM Hybrid Cloud Mesh. Favorisce l’integrazione delle applicazioni ibride e multicloud a partire da un accesso semplice, sicuro, scalabile e continuo per applicazioni e servizi in ambienti eterogenei. “Offre in modalità SaaS, la possibilità di tenere e visualizzare insieme tutte le informazioni relative alle risorse che le applicazioni stanno utilizzando nel mondo ibrido – specifica Guaitani – e, con altre soluzioni come IBM SevOne, rendere proattiva l’osservabilità sulla rete e monitorare come si comportano le applicazioni sfruttando le informazioni della stessa rete. Un approccio virtuoso per un pieno controllo della protezione delle informazioni, del dato, per spostare, accendere e spegnere le risorse in funzione anche degli economics”.
Non solo, IBM fornisce gli strumenti anche per valorizzare i dati raccolti nell’utilizzo dell’infrastruttura. Per esempio, la piattaforma di ottimizzazione dei costi per il cloud ibrido IBM Turbonomic consente di automatizzare in modo continuo le azioni cruciali in tempo reale e senza intervento umano, così da garantire in modo proattivo l’utilizzo più efficiente delle risorse di calcolo, archiviazione e rete alle app su ogni livello dello stack. Oppure ancora IBM Instana che consente di sfruttare l’osservabilità nel monitoraggio delle prestazioni delle applicazioni per accelerare le pipeline CI/CD indipendentemente da dove risiedono le applicazioni: cloud pubblico, privato o cloud, ambienti on-premise, IBM Z, etc.
La logica dello sviluppo di questi strumenti da parte di IBM è consentire di percepire il valore dell’hybrid cloud come quello di un unico ambiente per indirizzare la complessità, sfruttare DevOps e FinOps a proprio vantaggio, anche al crescere dei workload, continuando autilizzare anche gli strumenti già in dotazione, a partire da API e soluzioni software che permettono quindi di valorizzare dati gestiti ed elaborati da realtà diverse.
Per saperne di più scarica il whitepaper: IBM Transformation Index: State of Cloud
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