L’intelligenza artificiale è oggi al centro delle riflessioni strategiche delle imprese italiane, in tanti casi però i progetti sono ancora agli inizi, c’è sensibilità per il tema ma si è ancora lontani dall’implementazione concreta. Come emerge dalla recente survey di NetConsulting cube, l’AI Maturity Model fotografa come il passaggio dalla teoria alla pratica ponga diverse sfide: gestione dei dati, modelli organizzativi, compliance normativa e competenze interne sono solo alcuni dei fattori critici. Ne parliamo con Claudio Ricci, Head of Cloud e AI di TIM Enterprise, con cui approfondiamo quali siano le strategie più efficaci per rendere l’AI realmente operativa, trasformandola da promessa tecnologica a concreta leva di crescita e innovazione.
Dalla survey di NetConsulting cube emerge come le aziende italiane siano ancora in una fase di valutazione della strategia di AI. Quali sono a vostro avviso i passi da compiere per passare da una fase “teorica” progettuale a una implementazione reale dell’AI su larga scala?
La prima cosa è mettere ordine ai propri dati. L’AI vive di dati, sono una sorta di carburante che se manca o è di scarsa qualità, può bloccare completamente la macchina. Il secondo elemento è organizzativo: occorre aver definito una funzione preposta all’implementazione strategica dell’AI in azienda. E questa funzione deve avere una relazione diretta con il vertice aziendale, per consentire che le decisioni ad alto impatto vengano prese rapidamente ed i progetti più trasformativi siano implementati al meglio. Terzo elemento, l’azienda si deve dotare di un sistema di regole intorno all’AI che diano, a chi deve prendere decisioni, sufficiente chiarezza sui rischi e sui vincoli da rispettare. E su questo fronte ricordiamoci che non c’è solo l’AI Act, ma anche le altre normative come il Gdpr e Data Act.
Curati questi tre presupposti, si può partire con un piano di deployment che deve tener conto delle specificità di ogni azienda e degli obiettivi che vuole raggiungere. Esistono però alcuni suggerimenti che mi sento di dare. Partiamo da una considerazione: l’AI è una tecnologia in fortissima evoluzione e quello che vediamo oggi è molto distante da quello che avremo a disposizione tra qualche anno. Alcune aziende, però, stanno traendo da questa considerazione le conseguenze sbagliate, ovvero la decisione di “stare alla finestra” ed aspettare che emerga un paradigma tecnologico dominante. Una strategia pericolosa, poiché rischia di mettere un’azienda fuori mercato. Per questo è necessario adottare un approccio sperimentale, con progetti di breve e medio termine, che possano poi essere implementati con sistemi più sofisticati. E soprattutto coinvolgere l’intera popolazione aziendale nelle sperimentazioni, l’innovazione non deve essere solo top down.
Nella maggior parte dei casi, non è stato ancora definito in modo preciso il modello organizzativo per la gestione dell’AI (47%). Quali strategie per il change management proponete?

Avere una funzione organizzativa preposta all’adozione dell’AI è un prerequisito fondamentale. Ma l’impatto di un approccio strategico a questa tecnologia ricade necessariamente su tutta l’azienda, richiedendo quindi una gestione efficace del cambiamento. Nel caso dell’AI bisogna tener conto di alcuni aspetti fondamentali. Innanzitutto, il ruolo delle persone, che saranno chiamate a collaborare con assistenti virtuali, o a coordinarli, ad addestrarli. E poi la rapidità di evoluzione tecnologica a cui assistiamo. Il cambiamento dovrà essere indirizzato facendo scelte che possano essere modificate in corsa, adattate rapidamente, che non portino ad una configurazione rigida o difficilmente reversibile. È una sfida complessa che non riguarderà solo le aziende, ma la società intera.
Una delle principali criticità è rappresentata dalla carenza di Come potete supportare le aziende per colmare questo gap?
Se facciamo una ricerca della locuzione “skill gap” sulla stampa del settore Ict, penso che una buona percentuale degli articoli scritti negli ultimi 10 anni contenga questa frase. Ed ora con l’AI la situazione si è acuita. Il problema ha quindi una dimensione sistemica, su cui non possono che intervenire, come peraltro stanno già facendo, le istituzioni preposte alla formazione e all’educazione. Anche le aziende cercano in tutti i modi di incentivare lo skilling ed il re-skilling dei propri dipendenti. In TIM, oltre a specifici programmi di sviluppo e formazione, abbiamo costruito un processo interno che permette di mettere a fattor comune le competenze maturate sull’AI, con le strutture che invece si occupano di progetti mercato. E viceversa. Sono nate così delle vere e proprie community che consentono un “riuso” molto spinto delle competenze e delle esperienze di successo. E poi stimolano una forte curiosità e voglia di acquisire le competenze di cui abbiamo bisogno per affrontare le continue evoluzioni tecnologiche e di business del nostro settore.
Quale la strategia di TIM Enterprise per consentire alle imprese italiane di cogliere l’opportunità nella nuova AI Economy?
Abbiamo due asset fondamentali che vogliamo mettere a disposizione delle aziende e del Paese. La competenza della nostra azienda che ha innovato il sistema Ict con tecnologie e soluzioni dirompenti nel recente passato, dal mobile al cloud. Il secondo asset è la nostra capacità di costruire infrastrutture abilitanti, di proporci come un’alternativa alla tecnologia completamente di importazione. E’ un tema che in questi mesi sta vivendo un profondo ripensamento, e che ora è pari a quello della sicurezza degli approvvigionamenti energetici. Vogliamo essere al fianco di aziende e pubblica amministrazione per supportarle nell’evoluzione tecnologica, per poter incidere positivamente nella crescita del nostro Paese. Può sembrare uno slogan, ma è in realtà è nel nostro Dna. L’AI è una sfida importante e complessa per le aziende, e vogliamo aiutarle nel loro cammino per costruire valore.
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