“Misurare significa capire. Comprendere porta a lavorare meglio nella giusta direzione e aiuta le nostre imprese a crescere nel contesto attuale di forte globalizzazione permanente”, con questo benvenuto, Raffaele Jerusalmi, amministratore delegato di Borsa Italiana, a Palazzo Mezzanotte apre i lavori di presentazione del primo rapporto Istat dal Censimento Permanente delle Imprese che arriva appena quattro mesi dopo la presentazione del progetto.
Il lavoro fotografa statisticamente il 25% delle aziende produttive del Paese. Ne spiega la natura Gian Carlo Blangiardo, presidente Istat: “I dati del Censimento trovano fruttuosa integrazione con quelli delle fonti amministrative presenti nei registri Istat, la “permanenza” del Censimento è data dagli aggiornamenti annuali delle informazioni di base, e approfondimenti periodici con un taglio multiscopo che utilizzano un campione molto ampio, nel caso specifico parliamo di 280mila imprese con 3 e più addetti, rappresentative di un universo di poco più di un milione di unità, corrispondenti al 24,0% delle imprese italiane”.
Tre sono i punti di forza dell’iniziativa: la raccolta trasversale su tutti i principali ambiti strategici delle imprese (orientamenti, decisioni, scelte organizzative, gestione del personale, dei fornitori e dei finanziatori, benessere aziendale e iniziative di sostenibilità etc.); appunto, l’integrazione con i registri statistici per fornire un quadro completo su struttura, comportamenti e risultati del quadro produttivo; e infine il fatto di permettere di seguire nel tempo profili strategici e imprenditoriali e i fenomeni emergenti per settore.
Il Censimento tocca oggi anche processi emergenti nel tessuto di impresa come i processi di digitalizzazione e quelli di responsabilità sociale e sostenibilità per offrire effettivamente un’immagine a tutto tondo.
Le prime riflessioni sulla ricerca, con focus particolare sul tessuto lombardo sono di Davide Carlo Caparini assessore regionale bilancio e semplificazione: “E’ fondamentale comprendere caratteristiche strategiche e culturali delle imprese sul territorio ma è importante più di tutto avere “campioni nazionali”, cui riferirsi in un tessuto prevalentemente di Pmi flessibili e dinamiche capaci di innovazione di prodotto di sviluppo di fare sistema nell’ottica dell’internazionalizzazione”.
Caparini parla di “dinamismo accessibile” come caratteristica da evidenziare, esaltare ed aiutare. Capacità di innovazione e fare sistema sono in Lombardia fattori di competitività pur in un Paese “non sempre in grado di superare carenze croniche che ci sentiamo imputare, tra cui certo anche la mancata corrispondenza tra formazione/orientamento e quello che effettivamente chiede il sistema produttivo”. Ma in cui pubblico e privato sono chiamati a collaborare perché i fattori di crescita trovino la possibilità di amplificarsi.
Mentre Roberto Monducci, direttore del dipartimento per la produzione statistica Istat, offre i primi rilievi d’insieme: “I driver di competitività in un’economia moderna – attacca Monducci – rendono dinamico e complesso il contesto in cui si opera, ma in un sistema indubbiamente molto frammentato e quasi “atomizzato”, la ricchezza di relazioni delle nostre imprese rappresenta una caratteristica e un potenziale importante”.
Il campione di 280mila imprese favorisce la granularità del Censimento che entra nei settori e va a scavare nella mappa del tessuto produttivo. L’universo è di un milione di unità, che esclude dal rilievo qualitativo le imprese con meno di tre addetti. E si arriva ai numeri.
Istat, i numeri
Queste aziende producono l’84,4% del valore aggiunto nazionale, impiegano il 76,7% degli addetti (12,7 milioni) e il 91,3% dei dipendenti. Due terzi di esse sono micro imprese (3-9 addetti). Circa il 18% piccole aziende (fino a 49 addetti), mentre medie (fino a 249 addetti) e grandi (oltre i 249) rappresentano appena il 2,3%. Il 75% delle imprese italiane è controllato da persone fisiche o da famiglie e la gestione aziendale di queste imprese è, nella maggior parte dei casi, di competenza dell’imprenditore o di un membro della famiglia proprietaria.
Sono le grandi aziende a contribuire ad incrementare il peso occupazionale, mentre è in flessione il numero di micro imprese e della relativa occupazione, sia in termini assoluti che relativi.
Una dinamica in controtendenza rispetto al decennio precedente. E un segnale di un’evoluzione del sistema produttivo.
L’evoluzione settoriale di imprese e addetti conferma anche la crescita delle aziende di servizi. Si va verso un’ulteriore terziarizzazione delle attività, e scende la quota di imprese appartenenti all’industria.
Difendersi sul mercato, il primo obiettivo
La quasi totalità delle imprese con almeno 10 addetti (90,4%) indica tra i principali obiettivi strategici la difesa della propria posizione competitiva, il 69,9% l’ampliamento della gamma dei prodotti venduti e il 68,2% l’aumento delle attività in Italia. L’ampia maggioranza dichiara di aver raggiunto gli obiettivi del caso che si riferiscono al triennio 2016-2018.
Riconosce altresì, per raggiungere gli obiettivi, di aver intrapreso almeno uno dei percorsi di processo per lo sviluppo e l’innovazione del business tra quelli indicati: modernizzazione tecnologica, diversificazione dell’attività principale, transizione verso una nuova area di attività e trasformazione innovativa della propria attività, ma anche di aver investito in ricerca e sviluppo, tecnologie e digitalizzazione, capitale umano e formazione, internazionalizzazione, responsabilità sociale e ambientale.
Il triennio ha registrato una decisa ripresa dell’occupazione ma l’acquisizione di risorse umane ha coinvolto solo una micro azienda su due, il 77% delle piccole imprese, ma la quasi totalità delle aziende più grandi. Se costo del lavoro e incertezza del futuro sono le cause imputate per giustificare la prudenza di assunzioni allo stesso tempo appena il 22,4% delle aziende investe in formazione quando non è obbligatoria.
Vince il gioco di squadra
Torna il tema della ricchezza di relazioni. Monducci spiega: “Oltre la metà delle aziende ha relazioni produttive stabili, con altre aziende o istituzioni e la propensione ad attivare accordi produttivi aumenta al crescere della dimensione d’impresa”. Le relazioni delle imprese con altri soggetti assumono forme diverse. Prevalgono in particolare rapporti “di filiera”, recita il rapporto “ovvero accordi di commessa e subfornitura, cui ricorrono rispettivamente circa il 61,9% e il 48,3% delle imprese con relazioni, mentre molto meno frequente è l’attivazione di altri tipi di legami, formali (quali consorzi, joint ventures, franchising, associazioni temporanee d’impresa o altro, circa il 14%) e informali (circa il 22%)”.
La qualità del prodotto/servizio offerto, viene ritenuta da oltre il 71% delle aziende con almeno dieci addetti il primo fattore su cui fare leva per rimanere nel mercato.
Tecnologie digitali, lento il passo
Non sono ottime le notizie per quanto riguarda la capacità di scegliere, adottare e innestare nei processi le nuove tecnologie. La maggior parte delle imprese ne utilizza un numero limitato dando priorità agli investimenti infrastrutturali (soluzioni cloud, connettività in fibra ottica o in mobilità, software gestionali). E gli investimenti in tecnologia divengono strutturali e maggiormente integrati tra loro solamente a un più avanzato grado di digitalizzazione. E così è pari appena al 16,6% la quota di imprese che ha adottato almeno una tecnologia tra: Internet delle cose, realtà aumentata/virtuale, analisi dei big data, automazione avanzata, simulazione e stampa 3D.
Le imprese italiane e la sostenibilità
Dati all’apparenza confortanti quelli relativi alle azioni “sostenibili” del tessuto di impresa nel 2018. Il 66,6% delle imprese italiane svolge azioni per ridurre l’impatto ambientale – recita il Censimento – il 69% per migliorare il benessere lavorativo, le pari opportunità, la genitorialità e la conciliazione lavoro famiglia, poco meno del 65% per incrementare il livello di sicurezza all’interno della propria impresa.
Ma le iniziative alla base delle azioni di riduzione dell’impatto ambientale sono motivate dalla presenza di tassazioni favorevoli o sussidi specifici, mentre gli investimenti oltre a quanto è reso obbligatorio dalla legge per la gestione efficiente e sostenibile dell’energia e dei trasporti riguardano l’installazione di macchinari e impianti che riducono il consumo energetico, ma solo il 10% delle imprese installa impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili.
Stefano Menghinello, direttore centrale per la raccolta dati Istat: “Sono limitati gli investimenti per la gestione efficiente e sostenibile dell’energia, e anche per quanto riguarda l’attenzione delle imprese verso le persone e la famiglia, pur significativi, restano sempre slegati da un eventuale impegno economico che inciderebbe sui costi” E in un contesto valutativo prospettico, sono solo le grandi aziende quelle più attive nell’attivazione per esempio dello smart working (solo il 10% delle piccole e medie, ma ben il 30% delle grandi con un delta destinato ad allargarsi).
Altre criticità quelle segnalate da Carlo Robiglio, vice presidente Confindustria: “Le nostre aziende hanno dimostrato dopo “le crisi” di essere resilienti, ma oggi sono ancora solo le più grandi quelle che riescono a trasformarsi con meno difficoltà, ad innescare la crescita delle competenze anche interne, ed ad attivarsi con connessioni significative anche con le realtà di formazione”.
Si aggancia nel panel conclusivo al tema Leonardo Bassilichi VP nazionale Unioncamere che chiosa: “Le crisi sono sempre un effetto non la causa di quanto non funziona, e sono l’effetto di scelte mancate quando si potevano compiere, e mettono l’imprenditore in un atteggiamento di attesa che avvita il meccanismo”. La frammentazione burocratica e l’incertezza non aiutano.
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