La trasformazione digitale ridisegna le regole del mercato del lavoro e, di conseguenza, l’insieme delle competenze richieste a chi aspira a nuovi sbocchi professionali. In questo contesto la ricerca Digital Economy, Technological Competencies and the Job Matching Process, condotta dalla Fondazione Bruno Kessler (Fbk) e dal Center on Social Inequality Studies dell’Università di Trento, esplora come le competenze digitali – soprattutto quelle avanzate – incidano in modo significativo sulle probabilità di trovare un impiego. Lo studio prende in esame tre dei principali mercati del lavoro europei (Italia, Germania e Regno Unito) e offre una serie di indicazioni per comprendere le nuove dinamiche di selezione del personale.
Dagli strumenti di produttività (come l’uso avanzato di software gestionali) fino alle più recenti applicazioni di intelligenza artificiale (AI) e data analytics, si amplia costantemente la gamma di soluzioni che richiedono specifiche competenze digitali. Questa evoluzione va di pari passo con l’emergere di nuove figure professionali: data scientist, sviluppatori di algoritmi di ML, esperti di cybersecurity, specialisti di cloud computing, manager capaci di integrare la dimensione digitale nei processi decisionali. Entriamo quindi nei dettagli dello studio. 

La metodologia della ricerca

La ricerca si basa su un esperimento “fattoriale” a largo raggio. Più nello specifico, i ricercatori della Fondazione Bruno Kessler (Centro per la Ricerca valutativa sulle politiche pubbliche) e del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento hanno elaborato dei questionari da somministrare a un campione di professionisti in ambito risorse umane. Complessivamente, sono stati coinvolti oltre 700 recruiter e HR manager per ciascuno dei tre Paesi analizzati (Italia, Germania e Regno Unito), arrivando dunque a superare i 2.000 partecipanti complessivi. A ogni recruiter è stata sottoposta la valutazione di quattro diversi profili di candidati, ciascuno costruito in maniera casuale (random) combinando una serie di variabili: genere, età, titolo di studio, tipologia di posizione ricercata (ad alta o medio-bassa qualifica), esperienze di disoccupazione pregresse e, soprattutto, livello di competenze digitali (base, intermedio o avanzato). Sulla base dei profili presentati, i partecipanti hanno indicato, su una scala da 0 a 10, quanto fossero propensi ad assumere o a convocare a un colloquio quei candidati, anche in relazione al ruolo specifico per cui si candidavano. L’approccio deve il suo nome al fatto di combinare in modo sistematico e casuale diversi attributi dei candidati, fino a consentire di isolare l’impatto che singoli fattori (come il possesso di competenze digitali avanzate o di un determinato titolo di studio) esercitano sulle decisioni di reclutamento. In altre parole, i ricercatori possono così capire se, a parità di tutte le altre variabili, l’avere digital skill di livello avanzato sposti la valutazione dei recruiter più di quanto possa  fare una laurea o un’esperienza professionale in un settore affine. 

Competenze digitali avanzate e occupazione, quale relazione

Dai questionari e dalle relative analisi statistiche emerge un dato chiaro: il possesso di competenze digitali avanzate aumenta in modo rilevante le possibilità di essere assunti. Secondo le stime prodotte dal team di ricerca, queste competenze incidono per circa il +7,6% nel caso di ruoli manageriali e per il +6,7% nei ruoli tecnici. Per comprendere la portata di questi dati, basti considerare che il titolo di studio universitario incrementa le chance di assunzione solo di un +3% complessivo. Pertanto, avere un background tecnologico solido (programmazione, gestione di big data, familiarità con algoritmi e strutture dati, saper utilizzare piattaforme di cloud computing, software avanzati per l’analisi statistica e così via) pesa più di una semplice laurea, almeno all’interno dei tre mercati del lavoro esaminati.

livello di competenze digitali sulle intenzioni di assunzione dei reclutatori, per livello professionale
Effetto del livello di competenze digitali sulle intenzioni di assunzione dei reclutatori, per livello professionale (fonte: Digital Economy, Technological Competencies and the Job Matching Process, Fondazione Bruno Kessler e Uni. Trento, 2025)

Altre evidenze riguardano le differenze tra i Paesi. Nel Regno Unito, la ricerca ha rilevato un valore ancora più elevato (+10,21%), probabilmente perché in un mercato del lavoro più flessibile e dinamico si tende a valorizzare maggiormente le abilità pratiche rispetto ai titoli formali. In Italia, invece, il titolo di studio resta importante e assicura un vantaggio di oltre 4 punti percentuali (+4,58%). Detto ciò, anche nel nostro Paese le competenze digitali avanzate fanno la differenza, soprattutto per ruoli di medio-alta specializzazione.

Un rilievo altrettanto interessante riguarda l’effetto “compensativo” che le competenze digitali possono esercitare in caso di mismatch tra titolo di studio e posizione lavorativa: se un candidato ha un percorso di studi che non si sovrappone del tutto con il profilo richiesto, possedere forti skill tecnologiche può comunque favorirne la selezione. In un panorama in cui sempre più aziende affiancano l’innovazione digitale alle attività quotidiane, avere collaboratori in grado di gestire software, piattaforme o processi ad alto contenuto tecnologico diventa un valore aggiunto cruciale.

Paolo Barbieri
Paolo Barbieri, professore di Sociologia Economica, Università di Trento

Paolo Barbieri, professore di Sociologia Economica all’Università di Trento e coordinatore del Csis (Center on Social Inequality Studies): “Questa ricerca sul ruolo delle competenze digitali ]…[ analizza l’importanza delle competenze digitali sia dal lato dell’offerta di lavoro (cioè dei lavoratori), che delle necessità delle imprese. Lungi dal creare ‘disoccupazione tecnologica’, l’innovazione e le competenze digitali aiutano a creare lavoro qualificato e a favorire il matching fra domanda e offerta di lavoro. È un risultato importante, dal punto di vista di policy, perché fornisce indicazioni chiare sull’importanza di fornire ai nostri studenti (di scuola secondaria e terziaria) quelle competenze che li aiuteranno a farsi strada in un mercato del lavoro che non solo è sempre più globale ma anche sempre più qualificato”.

I risultati della ricerca suggeriscono quindi la necessità di intervenire su più fronti. Anzitutto, le istituzioni scolastiche e universitarie devono garantire un’offerta formativa in cui le discipline digitali non siano un semplice corollario, ma un pilastro fondamentale. Questo non implica soltanto corsi di programmazione, ma anche un approccio interdisciplinare, che permetta di comprendere come il digitale si integri con i processi di business, le discipline umanistiche e le scienze sociali. In seconda battuta, bisogna agire in termini di politiche attive del lavoro: se, come evidenziato dallo studio, la presenza di competenze avanzate può rafforzare la posizione competitiva di un candidato, è cruciale che i centri per l’impiego e gli uffici di orientamento sostengano percorsi di formazione ad hoc, magari grazie a piani di aggiornamento continuo (lifelong learning) o a partnership con aziende del territorio. In questo modo, si favorisce la diffusione capillare di skill digitali e si risponde alle esigenze reali delle imprese.
Terzo appunto, occorre riflettere sul ruolo della certificazione delle competenze: chi dispone di determinate abilità in ambito Ict deve poterle attestare, anche se non ha conseguito un titolo universitario specifico.

Alessio Tomelleri
Alessio Tomelleri, ricercatore Fbk-Irvapp

L’esperienza acquisita sul campo, l’aggiornamento continuo tramite corsi online o bootcamp, il superamento di test riconosciuti a livello internazionale (ad esempio per competenze di programmazione o di analisi dati) possono rappresentare un “biglietto da visita” efficace agli occhi di chi seleziona il personale

“Nel profilo di un candidato – chiosa Alessio Tomelleri, ricercatore di Fbk-Irvappla padronanza delle digital skill è un fattore determinante per la buona riuscita del processo di selezione. Soprattutto in un contesto globale che vede crescere le aziende che utilizzano la tecnologia e investono nel digitale. Entro il 2030 l’intelligenza artificiale varrà il 3,5% del Pil mondiale, mentre aumenteranno i posti di lavoro in settori quali artificial intelligence, big data, coding, cybersecurity, internet of things e sviluppo di applicazioni mobili”.

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