Il mondo dei dati sanitari è complesso. Non solo per la mole di informazione prodotte da esami, accertamenti, clinica, diagnostica ma anche per la forma dei dati stessi, spesso ancora non digitalizzati o archiviati su piattaforme che non si parlano. Una complessità che rimane tra i principali ostacoli da superare nell’ottica di sviluppare una sanità sempre più digitale che possa portare benedici a tutti i cittadini.
E’ proprio sull’importanza dell’interoperabilità dei dati diagnostici, in particolare nell’ambito Radiology Informatics, che Roberta Ranzo, Business Leader Enterprise Informatics Philips Italia, Israele e Grecia, investe tempo ed energie.
A che punto siamo in Italia? “L’interoperabilità dei dati sanitari è tema di vasta scala, strategico, da tenere in considerazione sia all’interno delle varie amministrazioni sia a livello regionale. Non solo per la fruizione dei dati nel tempo ma anche per la loro condivisione tra diverse strutture ospedaliere, utile per la conoscenza del paziente, la sua mobilità tra strutture diverse, per diagnosi e seconde opinioni. Ci sono senza dubbio regioni, come la Toscana o l’Emilia Romagna, che hanno già impostato un disegno su vasta scala con la consapevolezza che serva sviluppare una governance in grado di consentire la condivisione del dato sanitario nel più ampio contesto possibile, a beneficio dei pazienti”.
Come costruire l’interoperabilità
Incalza Ranzo: “L’interoperabilità dei dati sanitari può essere immaginata come una piramide, dove la base è costituita dal singolo ente ospedaliero. E’ da qui che deve partire una gestione efficace del dato: ogni struttura deve dotarsi di una governance solida, capace di garantire la qualità, la completezza e la pertinenza delle informazioni raccolte. Con una strategia avanzata di archiviazione dei dati, che consenta di valorizzarne la storicità, evidenziando i dati realmente significativi. Solo così si può alimentare in modo efficace un archivio condiviso e interoperabile, utile a livello cross ospedaliero e regionale”.
Un archivio neutrale rispetto alla proposta dei vendor che sia anche un repository di immagini cliniche, in grado di contenere non solo la tradizionale radiografia, ma anche elettrocardiogrammi, immagini e video, esplodendo il concetto di enterprise imaging. E tutta una serie di dati prodotti in ospedali e Asl distribuiti sul territorio, che rischierebbero di andare persi, restando isolati.
Il percorso di valorizzazione delle immagini – digitali e non digitali – dipende dalla maturità dell’ente, dalla sua propensione a creare una piramide di interoperabilità di dati. “Il primo punto di raccolta dati deve essere il più completo possibile, estensivo e omnicomprensivo, per dare vita a grandi basi dati da consultare e condividere”.
Il tema è complesso: come rendere i dati creati all’interno del sito sanitario A fruibili dal sito B? Come renderli intellegibili da un altro ente che utilizza un diverso sistema di gestione? “La spinta impressa dai fondi del Pnrr è stata nuova linfa per dare vita a una serie di progettualità a livello regionale, ma ancora oggi ogni regione si sta muovendo in maniera autonoma per assicurarsi una location dove creare interscambio dei dati a livello regionale. Siamo proprio in una fase di work in progress con regioni che sono già partite, altre che sono in procinto di farlo”.
Perché l’interoperabilità non è rimandabile
Il tema della interoperabilità dei dati è fondamentale e propedeutico alle novità introdotte dal decreto DM77, dalla medicina territoriale alla presa in carico del paziente da parte del medico di medicina generale, al concetto di Cot. “Uno degli strumenti per realizzare la condivisione dei dati imaging a livello territoriale e regionale può essere quella del Vendor neutral archive ” sostiene Ranzo.

Se ci focalizziamo sulla parte di condivisione delle immagini diagnostiche, il tema si complica ulteriormente: in un sistema sanitario organizzato su base regionale, molte Regioni stanno ancora definendo modalità e strategie per rendere possibile questo scambio.
“Sul territorio nazionale esiste oggi una grande eterogeneità nell’implementazione del Fascicolo Sanitario Elettronico, perchè il nostro sistema sanitario è un sistema federato, altamente regionalizzato. In questo contesto, parlare di una vera e propria strategia nazionale appare prematuro, anche perché mancano ancora alcune condizioni di base. Tuttavia, è possibile — e necessario — fare dei passi avanti: seguire le linee guida già tracciate, anche se parziali, e lavorare sull’armonizzazione dei dati all’interno dei fascicoli regionali è un primo obiettivo concreto. Il Fascicolo sanitario elettronico (Fse), infatti, rappresenta uno dei progetti sanitari a maggiore vocazione nazionale e andrebbe rafforzato a livello centrale, proprio per ridurre le disuguaglianze territoriali e costruire una base comune su cui far evolvere il sistema. Su questo fronte, ci sono margini concreti per agire”, precisa Ranzo.
Le linee guida a livello nazionale indicano i requisiti affinché il dato venga inserito all’interno del fascicolo sanitario elettronico e, seguendo questa logica, le tecnologie Philips (nello specifico Philips HealthSuite Imaging) sono aggiornate rispetto alle direttive emanate dal Dipartimento della Transizione Digitale, competente per il Fse.
Philips, strategia di apertura
Qual è invece l’approccio al cloud degli enti sanitari? Cloud che rimane la condizione base perché anche in sanità si possano condividere imaging e dati. Qualche perplessità da parte delle strutture sanitarie a valutarne costi e benefici c’è.
“Sono fiduciosa sull’apertura al cloud anche in sanità – dettaglia Ranzo – perché l’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale (Acn) ha censito tantissimi data center di aziende ospedaliere e ha spinto per aumentare il livello di sicurezza con le certificazioni. Inoltre gli investimenti fatti dal Polo Strategico Nazionale per migrare gli applicativi della pubblica amministrazione su cloud rendono i nostri dati sempre più sicuri e meno attaccabili. Vedo l’Italia, rispetto anche ad altri Paesi europei, aperta all’adozione del cloud proprio perché questa modalità di erogazione della tecnologia offre l’opportunità di avere un dato estremamente fruibile e sicuro. Il cloud ci mette al riparo da una serie di rischi, come i ransomware, che sono sempre più frequenti in sanità, oggetto di attacchi costanti”.
L’esperienza di Philips nel cloud è decennale, con enti molto importanti già in cloud da una decina di anni con la soluzione di imaging sui private data center. Qualche dato: Philips serve oltre 50mila radiologi a livello globale e, negli ultimi 12 mesi, ha gestito oltre 313 milioni di nuovi esami, di cui 27 milioni in cloud utilizzando e mettendo al sicuro dati in 11 data center distribuiti al livello mondiale. Con una capacità di archiviazione di oltre 600 immagini al secondo, all’interno dei sistemi PACS (Picture Archiving and Communication System) di Philips che integrano strumenti di AI avanzati a supporto della diagnostica e del processo di refertazione.
“Ma abbiamo recentemente deciso di rafforzare la nostra proposta cloud e di virare sul cloud pubblico di Aws proprio perché ci offre maggiore sicurezza da un punto di vista di aggiornamento dei data center, tutelando di conseguenza i nostri clienti responsabili del trattamento dei dati – precisa Ranzo -. E soprattutto ci permette di garantire miglioramenti sul nostro software e upgrade in maniera molto massiva. Oggi il lancio della nostra soluzione su Aws ci garantisce sicurezza, flessibilità ma soprattutto scalabilità”.
Una scelta che rispecchia l’andamento della crescita dei volumi dei dati di imaging e della loro dimensione che necessitano di archivi molto grandi e che nel cloud trovano la naturale locazione. “Il concetto di software as a service ci permette di scalare il prodotto in maniera molto semplice ed efficace in base alle richieste in crescita di ogni cliente – precisa -. Nello stesso tempo di avere un sistema sempre aggiornato che si interfaccia via via con i dati storici, un elemento importante in una popolazione che invecchia dove la cronicità dei pazienti definisce il trattamento e il percorso di cura”.
Cambio culturale
Il percorso ha richiesto negli anni anche un cambiamento culturale di medici e operatori, perché il cloud presuppone una evoluzione non solo nel modello di erogazione del servizio ma anche nel suo utilizzo.
“Nella nostra esperienza sul campo troviamo tantissimi Cio già pronti per il cloud: con loro le conversazioni sono semplici perché già vedono il valore della nostra soluzione di imaging in cloud. Alcuni sono early adopter, in cloud già da una decina di anni e oggi abbracciano di buon occhio il passaggio su un cloud pubblico come una evoluzione naturale di un mercato sempre più data-driven. Ma ci sono anche Cio late adopter che non hanno intenzione di voler passare in cloud, ancora molto ben ancorati al concetto dell’on-premise”.
Con Aws, Philips porta avanti a quattro mani un progetto di efficientamento dell’architettura, anche nell’ottica di renderla più sostenibile nel lungo termine, consapevole che i dati clinici sono destinati a crescere in modo esponenziale nei prossimi anni e il tema della sostenibilità economica dell’archiviazione sarà sempre più rilevante. “Questa partnership ci porterà a sviluppare nei prossimi anni le nostre soluzioni sempre in maniera più efficiente, efficace, sostenibile. C’è un movimento di sviluppo e di aggiornamento dei nostri software all’interno dell’infrastruttura cloud di Aws con applicazioni cloud native che ci permetteranno di allargare il perimetro delle nostre soluzioni di imaging anche ad ambiti nuovi (anatomia patologica, cardiologia)”.
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Da oggi Philips – che ha archiviato e gestito nella HealthSuite Imaging oltre 238 milioni di esami di diagnostica per immagini – anche nel cloud di Aws offrirà lo stesso livello di prestazioni, scalabili nel tempo.
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