Di fronte alle sfide di portata globale legate all’innovazione e alla sostenibilità, la bioeconomia sta emergendo come una leva strategica. Con un impatto crescente nei diversi verticali, questa prospettiva economica offre soluzioni concrete per ridurre la dipendenza dai combustibili fossili, accelerare il passaggio a un’economia circolare e favorire la transizione ecologica. Ne parla, e sviscera diverse prospettive tematiche il report Terra Next Bioeconomia come Motore di Crescita Sostenibile, che nasce come progetto frutto dell’iniziativa di Cdp Venture Capital, con la partecipazione di Intesa Sanpaolo Innovation Center in qualità di co-ideatore e promotore e Cariplo Factory, in qualità di catalist del programma.
Lo scenario
Nel 2023, in Italia, il comparto ha generato un valore di 437,5 miliardi di euro (+2,2% rispetto all’anno precedente), coinvolgendo 2 milioni di occupati e supportando 808 startup attive. Tuttavia, per consolidare il ruolo trainante della bioeconomia, servono più investimenti, politiche lungimiranti e una maggiore sinergia tra ricerca, imprese e istituzioni. Oggi la bioeconomia abbraccia un’ampia gamma di settori, dalla produzione agricola alla chimica bio-based, la cosmesi, la moda, la farmaceutica, l’alimentare e le bioplastiche. Il suo obiettivo è utilizzare risorse biologiche rinnovabili per realizzare prodotti e processi capaci di ridurre l’impatto ambientale e favorire lo sviluppo di sistemi produttivi circolari. Questa impostazione si rivela essenziale per affrontare le sfide odierne, come la lotta al cambiamento climatico, la tutela della biodiversità e la riduzione degli sprechi.
Non stupisce, quindi, che la Commissione Europea riconosca la bioeconomia come uno dei pilastri per realizzare il Green Deal. Investire in tecnologie e soluzioni bio-based significa promuovere un modello di crescita sostenibile, in cui innovazione e tutela dell’ambiente procedano di pari passo. Allo stesso tempo, l’Europa deve misurarsi con la necessità di restare competitiva sul panorama internazionale, dove Stati Uniti e Cina stanno investendo massicciamente in ricerca e sviluppo, nonché in venture capital. Da qui la consapevolezza che, per rilanciare la competitività e colmare il divario rispetto ai maggiori concorrenti globali, occorre integrare i principi della bioeconomia all’interno delle filiere produttive e dei programmi di innovazione europei.
Una sfida per la competitività in Europa
Il Rapporto Draghi, presentato nel 2024, ha evidenziato con chiarezza il divario di investimenti in ricerca e sviluppo tra l’Unione Europea e i principali competitor. Nel 2023, l’Europa ha investito circa 387 miliardi di euro in ricerca e sviluppo, un dato inferiore ai 928 miliardi degli Stati Uniti e ai 419 miliardi della Cina. Inoltre, mentre negli Stati Uniti l’impulso arriva soprattutto dal digitale, in Europa i fondi si concentrano prevalentemente sul settore automobilistico, con il rischio di mancare le aree più dirompenti dell’innovazione.

Questo gap si riflette anche nel panorama venture capital. Nel 2024, a livello globale, sono stati investiti 368,5 miliardi di dollari, di cui il 59% negli Usa, il 21% in Cina e appena il 17% in Europa. Ancora più significativo è il ritardo europeo nelle fasi iniziali di sviluppo delle startup (seed ed early-stage), dove gli investimenti risultano inferiori rispettivamente del 80% e del 73% rispetto agli Stati Uniti. Ciò rende meno fluido il trasferimento tecnologico, come confermano i dati sui brevetti: l’Europa ha rappresentato solo il 17% delle domande di brevetto globali nel 2021, contro il 21% degli Usa e il 25% della Cina.
In questa cornice, la partita della competitività europea si gioca sia sulla capacità di attrarre capitali, sia su quella di sostenere progetti innovativi. Diventa dunque prioritario creare condizioni favorevoli allo sviluppo di tecnologie emergenti, puntando su programmi nazionali e comunitari che incoraggino la collaborazione tra università, centri di ricerca e imprese. Soltanto in questo modo l’Europa potrà concorrere alla pari con i colossi globali, garantendo al contempo uno sviluppo sostenibile.
Transizione ecologica e decarbonizzazione
La neutralità climatica entro il 2050 è l’obiettivo cardine del Green Deal europeo. Per riuscirci, la Commissione ha previsto di mobilitare almeno 1.000 miliardi di euro in investimenti sostenibili nel prossimo decennio, destinando il 30% del bilancio UE 2021-2028 e di NextGenerationEU a progetti “verdi”. Allo stesso tempo però, il 95% di queste risorse è stato fino a oggi canalizzato verso la mitigazione del cambiamento climatico, lasciando parzialmente in ombra aspetti quali l’adattamento e lo sviluppo di filiere produttive sostenibili.
Nonostante l’Europa abbia raddoppiato i propri investimenti in sostenibilità negli ultimi dieci anni, rimangono ampi margini di miglioramento. L’impegno infatti non si esaurisce nella riduzione delle emissioni di CO2, ma comporta anche la creazione di modelli produttivi circolari, l’adozione di approcci bio-based e la diffusione di pratiche di agricoltura rigenerativa. È qui che la bioeconomia può dare un contributo sostanziale, poiché si fonda su un utilizzo virtuoso delle risorse biologiche e sulla rigenerazione degli ecosistemi.
Spostando lo sguardo sull’Italia, si nota che il settore climate-tech ha conosciuto una crescita significativa fino al 2023, quando gli investimenti in venture capital hanno superato i 220 milioni di euro. Nei primi nove mesi del 2024, però, tali investimenti sono scesi a circa 100 milioni, segno di una flessione che richiama l’urgenza di politiche più incisive per sostenere la transizione ecologica. In questo panorama, la bioeconomia può fungere da volano, promuovendo tecnologie e processi capaci di coniugare competitività e sostenibilità.
Il valore della bioeconomia in cifre
A livello continentale, il settore ha un valore di mercato di oltre 2.350 miliardi di euro, dando lavoro a 16 milioni di persone. In particolare, in Europa, gli investimenti nei settori agrifood, bio-materiali, cleantech e tech&digital hanno toccato 11,6 miliardi di euro nel 2023, con ben 24 Paesi UE su 27 attivi in tale comparto.

Abbiamo già misurato il contributo dell’Italia, in apertura, e la sua rilevanza nella distribuzione per filiere quali agricoltura, silvicoltura, chimica bio-based, farmaceutica, bioplastiche, alimentare, moda, cosmesi, gestione dei rifiuti e altri comparti che utilizzano risorse rinnovabili. A voler approfondire ulteriormente il ruolo delle startup, del numero di quelle coinvolte è da notare il peso: è il 6,6% di tutte le imprese innovative, con una notevole concentrazione di attività di ricerca e sviluppo (45% del totale).
La parte preponderante del valore della bioeconomia in Italia è data dall’agroalimentare (63,2% del totale), ma sono in crescita settori come la moda (+1,5%) e la cosmesi, mentre altri comparti – ad esempio la chimica bio-based e la gomma-plastica – hanno risentito di alcune flessioni. La bioeconomia quindi già oggi non è un fenomeno di nicchia, bensì un insieme di attività produttive che, se ben sostenute, possono accelerare la transizione ecologica, ridurre la dipendenza dai combustibili fossili e potenziare la competitività del sistema Paese.
Come accelerare la transizione
Per trasformare la bioeconomia in un motore di crescita sostenibile, occorrono misure che favoriscano l’innovazione, la sperimentazione e l’adozione su larga scala delle soluzioni bio-based. Sulla base del report di Terra Next si possono delineare cinque strategie chiave:
Sostenere l’innovazione bio-based – La creazione di fondi di venture capital e impact investing specializzati in bioeconomia, sul modello dell’European Circular Bioeconomy Fund, potrebbe fornire linfa vitale alle tecnologie più disruptive, riducendo il rischio nelle fasi iniziali e rafforzando la ricerca. Servono poi sinergie tra investimenti privati e strumenti di cofinanziamento pubblico (ad esempio Horizon Europe) per permettere alle startup di validare e portare sul mercato soluzioni ad alto potenziale ed occorre incentivare la stretta collaborazione fra imprese e università.
Facilitare sperimentazione e lo scale-up tecnologico – L’adozione di regulatory sandboxes e di living labs consente alle aziende di testare soluzioni bio-based in contesti reali, riducendo gli ostacoli normativi e velocizzando il time-to-market. La creazione di poli tecnologici regionali o verticali su filiere specifiche (come il tessile o il food) permette di condividere infrastrutture e competenze, seguendo l’esempio di iniziative europee come il Circular Bio-based Europe Joint Undertaking. Fondamentale, poi, l’istituzione di impianti pilota vòlti abbattere i costi e i rischi connessi alla sperimentazione su larga scala, sul modello del BioBase Europe Pilot Plant di Ghent in Belgio.
Snellire la normativa e incentivare il procurement verde – La promozione della bioeconomia passa attraverso norme che favoriscano l’uso di materiali e processi a basse emissioni di carbonio. La rapida attuazione del Carbon Border Adjustment Mechanism (Cbam) può evitare che i prodotti di importazione con un elevato contenuto di carbonio penalizzino quelli europei più sostenibili. È cruciale, inoltre, superare le barriere imposte da norme come l’End of Waste, per facilitare la chiusura del cerchio nel recupero e nel riutilizzo dei materiali. Serve altresì uniformare le regole sulle bioplastiche e i biocarburanti avanzati, introducendo standard di sostenibilità e meccanismi di tracciamento. Un potente volano di sviluppo potrebbe essere il procurement pubblico verde, che obblighi a includere una quota di soluzioni bio-based negli appalti, magari affiancato da agevolazioni fiscali per le imprese che investono in processi innovativi.
Incentivare ricerca e sviluppo – La competitività del settore bio-based si costruisce innanzitutto con l’innovazione. A livello europeo esistono diversi strumenti di finanziamento. E’ stato già citato Horizon Europe, ma vi sono anche i fondi Life (5,4 miliardi) e quelli di Innovation Fund (38 miliardi di euro). In Italia, tuttavia, manca un programma nazionale strutturato ed equivalente, il che rappresenta una lacuna rilevante. Rafforzare le sinergie con l’UE e creare un modello di sostegno mirato alla bioeconomia permetterebbe di attrarre più risorse e di consolidare la leadership italiana in questo campo.
Infine serve creare un ecosistema di filiera e collaborazione – Occorre promuovere lo scambio di competenze tra università, laboratori di ricerca, imprese consolidate e startup. Sono proprio le piattaforme collaborative, i cluster regionali e gli hub dedicati a favorire la contaminazione di idee e la creazione di nuove soluzioni. Tra i casi virtuosi, per esempio, il Cluster Spring dimostra quanto sia incisiva la cooperazione quando tutti gli attori della filiera condividono obiettivi di crescita sostenibile, unendo forze e competenze.
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