Sono i giorni di Red Hat Summit Connect in Italia. L’evento (in doppia data a Roma e Milano) riunisce esperti open source, clienti e partner, e propone lo sviluppo di temi e sessioni incentrati sui trend tecnologici, le best practice, e le tecnologie più recenti, nelle diverse aree: cloud, modernizzazione IT, edge computing, big data, IoT e mobile. Quest’anno per l’evento è stata scelta la formula “ibrida” con una serie di sessioni in presenza, accessibili anche in diretta streaming.
E per questo così apre i lavori del summit a Milano, Rodolfo Falcone, country manager Italia di Red Hat: “Finalmente ci ritroviamo! Era dicembre 2019 e a distanza di quasi due anni, ci vediamo di nuovo anche in presenza. Solo un anno fa si “partiva” con le vaccinazioni e con la tecnologia Red Hat sono stati creati i siti per le campagne vaccinali di diverse regioni (in circa un mese)”. E la trasformazione digitale e le tecnologie, mai con in questo periodo, hanno saputo dimostrare le proprie potenzialità. Non senza criticità, certo “in Italia mancano all’appello circa 300mila professionisti cloud e tutti gli operatori faticano a reperire risorse in questo senso”.
Serve guardare con attenzione ai numeri per capire. Falcone lo fa così: “L’incidenza del mercato digitale sul Pil tra il 2017 ed il 2020 è cresciuta. L’anno scorso si sono contati 19 milioni di nuovi “consumatori” online. Oggi in Italia gli utenti Internet sono più di 50 milioni, e tra aprile 2019 e aprile 2020 è cresciuto di sei milioni il numero dei certificati Spid, per non parlare dello smart working“. L’Italia è cambiata. “Dobbiamo prepararci alle rivoluzioni, non più alle evoluzioni – prosegue Falcone –. E tutta la gestione della trasformazione digitale che le aziende prevedevano di poter sostenere in due anni, la maggior parte di esse si è trovata a doverla sostenere in pochi mesi e l’anno scorso si è imparato a lavorare come altrimenti lo si sarebbe fatto tra dieci anni. Il luogo di lavoro oggi è un meeting point”. Anche i numeri macro economici indicano come le sfide non manchino e dai numeri negativi dello scorso anno sia il Pil globale, sia quello italiano nel 2021 cambiano di segno.
Oggi si aggiunge la “disponibilità di circa 222 miliardi stanziati con il Pnrr, su 48 linee di spesa, e quasi 50 miliardi sono puntati sulla digitalizzazione. Senza contare che l’innovazione e la trasformazione digitale permeano tutti gli ambiti di spesa. E’ il momento di fare il salto epocale atteso, che potrebbe tranquillamente essere confrontato con quello già vissuto con l’avvento di Internet”. Il mercato digitale che oggi vale circa 77,6 miliardi di euro potrebbe valerne 94,2 nel 2024 con l’utilizzo del 100% delle allocazioni annue del Pnrr.
Cloud, IoT, mobile business sono i digital market enabler che caratterizzeranno il mercato, “ma si registrerà anche il cambiamento radicale di alcuni temi IT classici, in primis la security che sarà portata tutta in cloud”. Industria, banche e telecomunicazioni le industry su cui si registreranno i maggiori impatti, “ma anche la pubblica amministrazione – chiosa Falcone – che sta compiendo passi da gigante rispetto al passato, tanto che Red Hatproprio con la PA cuba circa il 65% del proprio fatturato, e corre quasi più del privato”. La fotografia delle aziende che vanno in cloud mostra poi che nel 2020 le aziende impegnate nelle strategie di migrazione per il 16% hanno fatto refactoring, il 35% ha fatto repurchasing, il 32% ha abbracciato un approccio lift and shift (o re-hosting) ed il 17% ha preferito il replatforming.
“Ma di fatto oggi appena il 10% delle app è di app cloud native. E questo è un altro importante problema. Serve ribaltare le proporzioni”. Per raggiungere la flessibilità sperata nella gestione dei carichi che è uno dei principali vantaggi di un approccio multicloud.
“Un importante questione, insieme a quello delle competenze, si diceva, perché la percezione dei Gap da colmare, secondo Ceo e Cio riguarda per il 45% gli esperti nella gestione di hybrid e multicloud, per il 41% lo sviluppo cloud native, per il 33% le competenze su metodologie DevOps/Agile e per il 29% le expertise nelle strategie di cloud migration (fonte: Politecnico di Milano, Ndr)”. Red Hat in questo contesto si propone come trusted advisor quindi, sulla scorta dell’esperienza vissuta anche con aziende come Agos, Poste Italiane, Siae, Enel, Fastweb, ospitate nel corso dell’evento.
Red Hat, lo stack tecnologico per i progetti di DT
L’aziende del cappello rosso, infatti, dispone di tutto lo stack delle tecnologie nei progetti impegnativi di digital transformation: quelle di IT automation and management (hybrid cloud infrastrutcure), la parte cloud native-development e quella di IT automation e il management. Forrester colloca poi la proposizione Red Hat nel quadrante relativo alla proposizione Multicloud Container Development Platform in alto a destra, con Openshift.
Entra così nei dettagli della proposta Giorgio Galli, senior manager solution architecture presales team Italia, Red Hat: “Il modello open source oggi rappresenta “la norma”. Le aziende di fronte a progetti innovativi e di trasformazione guardano in primis alle tecnologie open “che oggi hanno senza dubbio capacità idonee ad indirizzare le esigenze enterprise. Tantissime di esse sono cresciute grazie alle startup e poi alle community cui esse si sono affidate per fare fiorire le idee migliori”. Lo stesso Economist sottolinea che “se si guarda all’infrastrutture Internet oggi la maggior parte delle tecnologie afferisce al modello open”.
Velocita, scalabilità e flessibilità sono gli elementi ricercati oggi dalle aziende. Si tratta di poter “fare scelte tecnologiche sufficientemente aperte e strategiche che possano poi abilitare il cambiamento senza dover rivoluzionare l’intero impianto di scelte compiute, in modo veloce, anche a fronte del bisogno di crescere nella capacità sia dal punto di vista applicativo, sia infrastrutturale“.
Due le direttrici operative: la proposizione per l’open hybrid multicloud (con il 63% delle aziende che già nel 2020 indicava di preferire l’approccio ibrido al cloud, 1) e il tema della trasformazione delle applicazioni, intesa come modernizzazione delle stesse o ancora meglio puntando al design applicativo secondo i paradigmi cloud native (2). Red Hat Enterprise Linux oggi viene sviluppato proprio secondo questo paradigma e l’azienda ha saputo approcciare il paradigma cloud native anche nello sviluppo delle soluzioni containerizzate, scegliendo come orchestratore Kubernetes ma consapevole di come attorno servisse un’infrastruttura di carattere enterprise, una proposta PaaS che contenesse elementi e tecnologie open per i carichi di lavoro enterprise.
“Openshift per questo è oggi al centro della strategia Red Hat– spiega Galli – in quanto rappresenta il layer che permette di disaccoppiare le scelte tecnologiche sottostanti (consentendo l’utilizzo di DC esistenti fisici o virtuali, estensioni al cloud pubblico, etc.) dalla parte sovrastante, cioè le applicazioni, in questo modo offrendo una PaaS flessibile a supporto dei carichi tradizionali ma consentendo di muoversi nello sviluppo delle nuove architetture”. E su questo assunto di base si è sviluppata la piattaforma.
Con due obiettivi primari: il primo relativo alla possibilità di fare modo che la piattaforma sia effettivamente e facilmente gestibile (installazione, configurazione, osservabilità), “ambiti in cui l’elemento automazione è un elemento assolutamente importante nell’adozione del cloud”. L’altro obiettivo invece è “fornire elementi per gli utenti finali che sviluppano e rilasciano applicazioni”. Quindi con una serie di funzionalità per abilitare l’uso fattivo della piattaforma. Un esempio su tutti le funzionalità di continuous integration e delivery per abilitare chi sviluppa a generare pipeline automatiche per passare dal codice all’immagine al rilascio in modo più agile.
“Con gli ambienti virtualizzati oramai considerati “commodity” e la containerizzazione in rapida crescita, – prosegue Galli – abbiamo compreso la necessità di disporre di ulteriore tecnologia a supporto di questi ultimi, per esempio proprio Red Hat Advanced Cluster Managementfor Kubernetes, non solo per Openshift, ma a gestione del ciclo di vita dei cluster e quindi anche per i cicli di vita di Kubernetes quando gira sulle risorse degli hyperscaler”. L’offerta abbraccia il ciclo di vita del cluster dal provisioning al decommissioning, ma con “l’implementazione anche di funzionalità come la definizione delle policy, per la compliance, e le funzionalità di rilascio non solo dell’infrastruttura ma anche dell’applicazione” secondo modelli dichiarativi.
“Il percorso non si è concluso qui, perché queste architetture richiedono comunque la tecnologia in grado di indirizzare la tematica della sicurezza“. Da qui l’acquisizione di Red Hat di Stackrox “e il rilascio di Red Hat Advanced Cluster Security for Kubernetes. Cercando di adottare il paradigma shift left, in modo da controllare la security nella fase iniziale di rilascio delle immagini in modo tale da abbracciare un modello DevSecOps reale”. Per riuscire infine ad avere un repository centralizzato per la gestione delle immagini che possano rappresentare una risorsa effettiva per le aziende, sempre all’interno della proposta Openshift.
L’architettura a container oggi però richiede di disporre di tecnologie che supportino a 360 gradi automazione e gestione. “Ansible in questo ambito rappresenta la tecnologia di automazione fondamentale nei processi cloud per fare provisioning e generare ambienti container su bare metal, su infrastrutture virtuali e anche sulle tecnologie degli hyperscaler”. Openshift Single Node apre poi scenari interessanti per particolari business case che richiedono di avere su un singolo nodo risorse containerizzate (per esempio all’edge).
La piattaforma Openshift può essere sfruttata non solo on-prem in modalità self-managed, ma anche gestita dai cloud provider e dagli hyperscaler come Aws, Azure, Ibm, etc. Ed anche diversi partner hanno installato e certificato servizi per Red Hat Openshift.
“Per quanto riguarda la seconda direttrice, la parte relativa alle applicazioni cloud native, è evidente come ci sia ancora tantissimo da fare”. Il tema richiede prima di tutto alle aziende di acquisire consapevolezza su cosa si vuole sviluppare (servizi e applicazioni) “ma oltre a questo – prosegue Galli – vediamo affacciarsi nelle aziende l’interesse per il mondo function as a service e l’idea di event driven architecture“. Red Hat dispone di un portafoglio di tecnologie per lo sviluppo di applicazioni cloud native, partendo dalla componente runtime come anche dallo sviluppo di tecnologie di integrazione (tra cui quelle di Api management), ed in parallelo ha rilasciato anche tecnologie come Quarkus, Camel K, Cogito.
Sono orientate al mondo Kubernetes e allo sviluppo delle applicazioni cloud native. Quarkus è un framework Java, nativo Kubernetes. Sulla base delle competenze già disponibili presso gli sviluppatori consente di sviluppare app Java orientate alle architetture event driven o serverless. Camel K, basato su Apache Camel è invece piattaforma di integrazione snella per le app cloud native per integrare le applicazioni sempre sfruttando serverless ed event driven. Infine, Cogito stravolge i paradigmi del passato basati su engine adibiti all’interpretazione dei processi di business (con relativi colli di bottiglia), e consente di disegnare dei processi e fare in modo che questi siano rilasciati come servizi o microservizi pronti a girare su risorse containerizzate.
Red Hat oggi rilascia poi tecnologia in modalità “managed”, quindi gestita, ma soprattutto, consapevole del gap tra tecnologie e competenze, offre servizi professionali e training per disegnare con le aziende un percorso e traiettorie lineari di trasformazione con l’aiuto dei partner e delle competenze più adeguate.
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