Il contesto di mercato entro cui si inserisce la proposta sembra a sua volta favorevole a spingere le organizzazioni al cambiamento e lo delinea così Rodolfo Falcone, country manager di Red Hat Italia. “Artificial intelligence, blockhain e cloud computing sono gli abilitatori digitali su cui si focalizza l’attenzione delle aziende e sarà così anche nei prossimi due anni. L’AI rappresenta senza dubbio un abilitatore e nel contesto dei temi odierni consente di automatizzare tutta una serie di processi che prima erano manuali”.
Red Hat Ansible Automation Platform, per esempio, fornisce supporto per il ciclo di vita enterprise delle aziende che desiderano standardizzare, operazionalizzare ed estendere l’automazione e permette quindi di generare script in maniera automatica.
“Di blockchain se ne parla più di quanto la si usi realmente, con l’eccezione di alcune banche; il cloud computing invece fa oggi la parte del leone considerata anche la spesa (e le intenzioni di spesa) delle aziende, mentre per l’AI al momento le aziende spendono relativamente ancora poco”. E tra le voci cloud, certo la migrazione applicativa è priorità, così come la cybersecurity, diretta conseguenza delle scelte cloud.
Specifica Falcone: “Parliamo di una migrazione che prevede nella maggior parte dei casi la scelta del cloud ibrido“. I macroindicatori attraverso cui osservare il mercato cloud scomposto lo confermano (vd. immagine a seguire). “E la scomposizione evidenzia inoltre l’importanza di virtual vs private cloud e dell’automatizzazione del data center, perché mantenere l’efficienza dei processi dei DC costa e non poco”. In Italia, un esempio di azienda che sfrutta il potenziale di Red Hat Ansible con l’AI di Ibm Watson in questo senso è Wind.
“Il cloud è pervasivo oramai nelle grandi imprese ed è l’ambiente dove opera circa la metà delle applicazioni aziendali – prosegue Falcone, citando i rilievi degli analisti –. Tuttavia le sfide principali per la trasformazione delle modalità con cui le organizzazioni fruiscono della tecnologia non sono certo terminate”. Sfide appunto che riguardano in primis il mercato della virtualizzazione che vede l’approccio basato sui container in evidente crescita, mentre quello basato sulla virtualizzazione tradizionale è flat.
In numeri, secondo gli snapshot Worldwide Virtualization/ Container Infrastructure Software Forecast, per la prima da qui al 2027 si prevede un Cagr dell’1,3%, mentre per la containerizzazione del 23,4%. “Oggi si tende quindi a virtualizzare direttamente sui container”, spiega Falcone e prosegue “e gli operatori IT (partner e reseller, compresi) devono quindi puntare sulla tecnologia più innovativa”. La modernizzazione delle applicazioni è quindi il vero trend da mettere a fuoco.
Red Hat si presenta con un approccio che va dal sistema operativo Linux (Red Hat Enterprise Linux, di fatto una platform), automatizza i processi, facilita la migrazione verso il cloud con Red Hat Ansible e, con la piattaforma applicativa Red Hat Openshift, offre gli strumenti per portare tutte le applicazioni in cloud o comunque gestirle in modo omogeneo quando sono on-premise. Poste Italiane, Intesa SanPaolo, Snam, Bper sono tra le aziende italiane che hanno fatto questa scelta. “In un momento in cui le aziende cercano soluzioni alternative ed innovative a Vmware per la virtualizzazione applicativa, Red Hat propone di muovere l’azienda verso una trasformazione applicativa concreta, portando la virtualizzazione sui container”, conclude Falcone. E secondo Goldman Sachs chi segue questa via beneficierà a lungo termine del vantaggio per cui sull’utilizzo di Kubernetes per la gestione delle macchine virtuali è impegnata tutta la comunità cloud-native.
Red Hat Openshift Virtualization, VM e container insieme
“Le scelte tecnologiche di Red Hat – raccoglie il testimone Rinaldo Bergamini, Solution Architecture manager di Red Hat – hanno seguito le evoluzioni delle architetture. Tra il 2000 ed il 2010 il mercato chiedeva la virtualizzazione dei server fisici con le VM. Con lo sviluppo delle applicazioni native per il cloud, e lo spostamento verso le piattaforme di containerizzazione, Red Hat ha acquisito però un ruolo sempre più importante, grazie a Red Hat Openshift“.
Nel tempo si è compreso che le tecnologie fondanti alla base dei sistemi di virtualizzazione e di containerizzazione hanno requisiti comuni: i workload, ovunque siano istanziati hanno bisogno di orchestrazione, accesso al network, storage, vista unificata ed Api. E Red Hat ha lavorato per cambiare il paradigma e passare dall’esigenza di due platform (una per la virtualizzazione ed una per la containerizzazione) ad un’unica proposta. “In questo modo riusciamo ad intercettare quelli che sono i trend tradizionali insieme con i trend delle modern application e riusciamo a farlo con un’unica piattaforma che dispone di tecnologie comuni”. Un’azienda invece di avere due team separati che gestiscono la virtualizzazione e la containerizzazione può attribuire alle competenze di un unico team i task relativi, con un’evidente riduzione anche dei costi.
“Non importa quindi se un workload gira su una macchina virtuale o su un container, perché la piattaforma è la stessa per tutti gli use case”. E i vantaggi sono consistenti: “Per esempio è possibile portare in virtualizzazione anche i vantaggi delle architetture moderne. In primis la scalabilità, ma anche la possibilità di disporre della definizione infrastrutturale con un approccio Infrastructure as Code. E ancora, è possibile estendere ai workload virtualizzati i vantaggi GitOps, definendo una volta sola i repository in cui gli sviluppatori raccolgono tutte le configurazioni, per poi applicarle in modo automatizzato ai sistemi”. Vantaggi consistenti soprattutto per i team il cui lavoro risulta più facilmente coordinabile con risultati coerenti e riduzione dei costi operativi.
“Grazie a Openshift Virtualization, Red Hat porta quindi i vantaggi di Openshift anche alle macchine virtuali all’interno della stessa piattaforma”. Diversi gli use case indirizzati: il primo è quello classico, di clienti che hanno una piattaforma di virtualizzazione tradizionale e “vogliono evitare il lockin sposando la proposta di un altro vendor”. L’approccio con un’unica piattaforma consente però anche di “ridurre i costi, proprio attraverso la gestione possibile con un solo team e senza silos”. E, per quanto riguarda lo sviluppo, è possibile “gestire all’interno di quelle che sono le pipeline un unico flusso (per VM e container), mentre prima servivano due sistemi per portare in produzione le applicazioni”.
Nel momento poi in cui il trend è quello di andare verso lo sviluppo delle applicazioni su container resta sempre possibile l’integrazione dei workload applicativi legacy, all’interno di un’unica soluzione mantenendo però uno stack software che è ancora tradizionale. Serve per le applicazioni che non si è in grado trasformare direttamente con i container. Una proposta poi che è anche utilizzabile in un contesto di tipo edge: “ci sono architetture Openshift che sono pensate per i contesti edge come ovviamente architetture che sono pensate per il data center. E con questo modello la soluzione, duttile, può essere facilmente spostata in contesti di tipo ‘branch'”.
Red Hat propone allora un vero e proprio “path di migrazione”. Come abbiamo visto alcune VM possono essere trasformate in container e si parla allora di vera e propria trasformazione applicativa attraverso il refactoring delle applicazioni, rendendole cloud-native (attraverso Openshift Containerization è possibile quindi spostarle dalle VM ai container su Openshift Container Platform con Migration Toolkit for Application); in altri casi i workload non sono trasformabili, ma con Openshift Virtualization vengono lo stesso incorporati nella platform. “Si prendono quindi le VM e attraverso gli strumenti di migrazione (Migration Toolkit Virtualization) si portano all’interno della platform, senza revisione dell’applicativo, con un approccio lift and shift“. Ci saranno poi VM che per una serie di requisiti non è vantaggioso spostare dal virtualizzatore tradizionale ma, anche in questo caso, si consente al cliente di ridurre la complessità perché le applicazioni, pur ancora virtualizzate, condividono comunque un unico ambiente.
Il primo dei casi è l’approccio più lungimirante, e può anche rappresentare semplicemente il primo passo dell’evoluzione applicativa che oggi riguarda di fatto non solo più le aziende enterprise, ma anche le medie imprese (che spesso si appoggiano ai system integrator). La proposta tecnologica alla base di Openshift Virtualization si è evoluta nel tempo grazie agli sviluppi della community open source, per questo già oggi è matura e resta 100% open source.
L’avanzamento nella strategia Red Hat sta nella possibilità, oggi, di tenere nella stessa piattaforma non solo le applicazioni cloud-native, ma offrire ai clienti una piattaforma pensata per le applicazioni moderne in grado di ospitare anche quelle virtualizzate, grazie a Openshift Virtualization, appunto, e potenzialmente nel favorire quindi la vera modernizzazione applicativa. Aggiunge Bergamini: “La virtualizzazione con Openshift permette poi con un’unica sottoscrizione di coprire anche i sistemi operativi Rhel posti all’interno delle macchine virtuali. Il costo di Openshift Virtualization quindi include anche le licenze Red Hat Enterprise Linux necessarie. Ora lavoriamo sull’aggiunta di ulteriori feature per Openshift Virtualization, in particolare per semplificare le operations dei team. Per Openshift, nel complesso, puntiamo ad espandere la disponibilità della piattaforma su tutti i delivery model (on-premise, in cloud, su hardware certificato etc.etc.) e lavorare ad Openshift AI”. Carne al fuoco in un momento in cui partner e canale sono particolarmente sensibili a valutare alternative a Vmware proiettate al futuro.
Tra le referenze dei clienti che già utilizzano la proposta Openshift Virtualization Morgan Stanley e Goldman Sachs. Quest’ultima ha generato un’architettura equivalente – prima basata sull virtualizzazione tradizionale -, di fatto con un approccio iperconvergente, registrando sensibili risparmi anche dal punto di vista dei costi di sottoscrizione. Interessante anche il caso di Sahibinden.com, una realtà turca, nello specifico uno shop online che ha definito un’architettura in cui le applicazioni moderne convivono su un’unica piattaforma con quelle basate su macchine virtuali.
© RIPRODUZIONE RISERVATA