L’equità sanitaria, la possibilità di accesso a cure, medicine, assistenza e dispositivi medici, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità è oggi a rischio per differenze evitabili o rimediabili che però si fanno a livello globale sempre più marcate. L’accesso all’assistenza sanitaria di fatto è molto eterogeneo tra Paesi con prodotti interni lordi (Pil) diversi, ma cambia anche tra popolazioni rurali e urbane.
E’ un tema rilevante dal punto di vista sociale che impatta anche sui risultati economici, tanto che solo nell’Unione Europea si valuta che le disuguaglianze pesino per circa l’1,4% del Pil ogni anno, una cifra che è di poco inferiore alla spesa dell’UE per la difesa (1,6% del Pil). Senza contare che l’equità sanitaria è anche tra i temi concreti nei bilanci di sostenibilità Esg per la maggior parte degli operatori farmaceutici e delle realtà che operano nel medtech, oltre ad essere presente nei piani strategici delle C-line.
McKinsey prevede per il medtech una crescita ancora in accelerazione (anche dopo la pandemia di Covid-19), con aspettative elevate per le aziende del settore. La crescita dei ricavi del settore medtech nel 2024 si dovrebbe però stabilizzare probabilmente tra 100 e 150 punti al di sopra dei livelli prepandemici. Invecchiamento della popolazione e innovazioni mirate su malattie sotto-trattate (come il diabete, l’insufficienza cardiaca e l’ictus) tra i fattori che vi contribuiscono. Ma di particolare interesse è l’analisi di Boston Consulting Group (Bcg), Making Medtech More Equitable secondo cui i board sono decisi ad affrontare la questione delle disuguaglianze sanitarie e vedono proprio nel corretto indirizzo degli sforzi nel medtech un abilitatore per raggiungere gli obiettivi.
I numeri della ricerca esprimono questa concordanza: ben il 98% delle leadership delle aziende medtech intervistate dice di comprendere l’impatto che la loro attività può avere sulle disuguaglianze sanitarie, mentre il 90% afferma di avere già dei piani aziendali formali per affrontarle. Ma i limiti nella fase di esecuzione sono ancora tanti: tra gli ostacoli agli investimenti per la mitigazione del problema vi sono proprio la presenza di “priorità più immediate” e la “mancanza di un business case”.
Le aziende dovrebbero garantire l’equità anche in relazione alla possibilità di espandere la propria definizione di valore, ovvero creare business case completi che guardano a nuovi modi di generare impatto, andando oltre gli indicatori finanziari tradizionali. Attrarre e trattenere i talenti consente di differenziarsi in modo virtuoso sul versante della responsabilità sociale e dell’impegno per le problematiche connesse; serve poi tenere in conto che questo approccio consente l’accesso a nuovi mercati grazie a prodotti e servizi per le comunità attualmente sotto-servite. Sviluppare prodotti medtech per più mercati dà alle aziende la possibilità di confrontarsi con ambienti normativi diversi e aprire partnership locali strategiche a sostegno della ricerca e dello sviluppo o di altre funzioni aziendali. Cresce poi abbiamo visto l’importanza delle tematiche Esg per gli investitori, e allora l’impegno per l’equità sanitaria può aiutare le aziende medtech a costruire relazioni più forti con gli investitori e attrarne di nuovi, con un “valuation premium” fino al 12%. L’approccio proattivo al tema poi aiuta le aziende a soddisfare requisiti normativi orientati.
In Italia, per esempio, il piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere, adottato con il decreto del 13 giugno 2019, esorta a “un utilizzo dei dispositivi medici che tenga conto delle differenze anatomico-funzionali legate al genere”, evidenziando come non sia ancora preso in considerazione a sufficienza “pur essendo stato riconosciuto rilevante in ambito sanitario”. E proprio in Italia, secondo dati dell’Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane – ricavati su elaborazioni Istat – è possibile rilevare che l’aspettativa di vita in Campania, per esempio, per gli uomini è di quasi 79 anni e per le donne di oltre 83 anni, mentre a Trento la speranza di vita è rispettivamente di 81,6 per gli uomini e 86,3 anni per le donne. I dati mostrano inoltre che anche il livello di istruzione potrebbe avere un impatto diretto sulla salute, poiché individui con un basso livello di istruzione hanno una speranza di vita inferiore rispetto a coloro che possiedono una laurea (77 vs. 82 anni).
Numeri che Alessandra Catozzella, partner di Bcg, riprende e commenta: “Tra i fattori che generano disparità vi sono le condizioni socioeconomiche dei pazienti, ma anche la mancanza di strutture sanitarie in alcune aree, così come la qualità dell’assistenza medica. Il problema esiste e ha impatti rilevanti sull’incidenza di malattie e l’aspettativa di vita della popolazione. In Italia, ad esempio, i divari di salute per area di residenza sono persistenti e non solo tra regioni del Nord e regioni del Sud, ma anche all’interno della stessa regione, ad esempio nelle aree rurali”.
La ricerca evidenzia quindi la necessità di operare nel medtech per realizzare prodotti che siano ben adattati, accessibili, convenienti e disponibili a tutti coloro che possano trarne beneficio. Si deve partire dalla consapevolezza sul problema e sul potenziale delle soluzioni, fissando obiettivi specifici a lungo termine. A questo proposito il primo passo è integrare l’equità sanitaria come priorità in tutte le funzioni aziendali e lungo l’intero ciclo di vita del prodotto, a partire proprio da ricerca e sviluppo, includendo prodotti che soddisfano le esigenze delle popolazioni e dei mercati sottoserviti e tenendo conto di diverse tipologie di pazienti nei trial clinici. Quindi operare attraverso partnership strategiche a lungo termine con altre realtà sanitarie, inclusi provider sanitari, organizzazioni governative, organizzazioni no-profit, gruppi di advocacy e comunità, per aumentare la portata e l’impatto degli sforzi. E chiaramente persistere nel lungo periodo sugli impegni.
Nello specifico dello sviluppo dei dispositivi medtech è già oggi importante tenere conto delle diverse esigenze delle popolazioni e dei sistemi sanitari.
Per esempio, sono già appurate le variabili nella stima del livello di saturazione di ossigeno arterioso a seconda delle diverse etnie, degli ossimetri a impulsi che utilizzano la luce per misurare questo parametro e nel 2022 questo fattore ha ritardato la diagnosi Covid. Ma anche il fattore di genere è da tenere in conto quando si parla di farmaci e dispositivi medici sviluppati a misura di uomo, che usati anche sulle donne non sempre forniscono poi risultati altrettanto soddisfacenti.
Un esempio tra questi sono le protesi di ginocchio e anca, che secondo alcuni studi avrebbero un rischio di revisione a 3 anni del 30% più alto per le donne rispetto agli uomini; ma anche i dispositivi di assistenza ventricolare, con il dispositivo standard da 70 centimetri cubi approvato dall’Fda da nel 2004 troppo grande per l’anatomia femminile, ridotto a 50 centimetri cubi solo nel marzo del 2020. Gli esempi si estendono fino alle sperimentazioni sui materiali, per esempio gli impianti a rete impiegati in chirurgia uroginecologica, mai sottoposti a studi clinici sulle donne prima di essere approvati, oggetto di numerosi richiami in seguito alle migliaia di disagi riportati dalle donne con dolori, infezioni, sanguinamenti, problemi urinari, danni ai nervi e ai tessuti in seguito all’impianto.
Anche McKinsey, in una recente analisi, sottolinea l’importanza di “ripensare” il medtech a seconda del ‘genere’ – tanto che parla di femtech come categoria emergente di tecnologie che affronta i problemi di salute specifici delle donne con le relative innovazioni che includono dispositivi medici progettati e sviluppati in modo specifico.
I dispositivi medtech poi, lo sappiamo, in alcuni casi sono disponibili solo a prezzi elevati per cui, normalmente impiegati nei Paesi ad alto reddito, non si trovano del tutto in quelli più poveri. Ed in ultimo, la ricerca e lo sviluppo di dispositivi medici limitano spesso i test a campioni non rappresentativi, che trascurano la diversità genetica e fenotipica della popolazione mondiale, così come delle varie esigenze culturali e questo si traduce in dispositivi che non sono efficaci come ci si aspetterebbe o accettati dalle comunità per cui sono stati ideati. “Nell’healthcare abbiamo il privilegio (e dovere) di generare un impatto reale sulla vita delle persone – evidenzia Catozzella. Al di là dei requisiti normativi e dei sempre più numerosi report e indicatori richiesti (oltre 1.100 data point solo per effetto della Csrd), credo non vi sia modo migliore per misurare la sostenibilità che assicurare accesso equo alle cure, che si misura in numero di persone che hanno accesso a farmaci, vaccini e cure di qualità, nonché in riduzione delle reazioni avverse, complicazioni e morti evitabili legate a bias (di genere o etnia) nella ricerca clinica e farmacologica”.
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