Puntuale arriva a metà del 2021 la fotografia scattata da Istat sul quadro economico e sociale del Paese, a valle di una emergenza sanitaria che impatta ancora sull’andamento delle principali economie con una previsione di ripresa importante entro fine anno.
Se la recessione globale è stata violenta e di breve durata nel 2020, si prevede una ripartenza, spinta anche dal Pnrr, che impatterà sul Pil italiano previsto in rialzo del 4,7% nel 2021, dopo la pesante caduta (-8,9%) dello scorso anno, attribuibile essenzialmente al crollo della domanda interna.

Una situazione comune alle economie mondiali che hanno sperimentato una profonda recessione legata alla diffusione della pandemia, contrastata con l’attuazione di severe misure di contenimento sociale e di limitazione delle attività produttive: nella prima parte del 2020 si è registrato un crollo dell’attività economica in quasi tutti i Paesi, seguito da un forte rimbalzo nei mesi estivi del 2020. Ma così come per l’Italia, la Commissione Europea ha previsto per l’area euro che il pieno recupero dell’economia si distribuisca nel biennio 2021-2022, con una crescita del Pil pari a 4,3% e 4,4% nei prossimi due anni, osservando che il settore industriale, nella maggioranza delle economie, sarà il comparto che meglio sosterrà il processo di ripresa, trainando gli scambi mondiali dei beni.

Guardiamo ai dati del primo trimestre 2021 che riguardano l’Italia prima di focalizzarci sui capitoli del 29esimo Rapporto annuale Istat 2021 dedicati al digitale (“Le tecnologie digitali rappresentano una componente strategica per la competitività dei Paesi e per l’evoluzione dei sistemi produttivi verso una maggiore sostenibilità”) e alle competenze (“disuguaglianze strutturali che si sono aggravate durante l’anno della pandemia”).

1 – Forte miglioramento nella manifattura, nelle costruzioni e in alcuni comparti del terziario (cresce la fiducia di imprese e consumatori): nel primo trimestre 2021, l’economia italiana ha segnato un lievissimo recupero congiunturale (Pil +0,1%), andando meglio di altri grandi economie europee.

2 – Moderato recupero dell’occupazione: a gennaio 2021 si registrava quasi un milione di posti di lavoro in meno rispetto al gennaio pre-pandemia, a maggio le perdite si attestavano su 735mila lavoratori, con un tasso di occupazione (15-64 anni) in crescita al 57,2%, pur rimanendo debole la richiesta di nuovo lavoro.

3 – Stabile il fronte dei prezzi, anche se con moderate spinte inflazionistiche dovute all’aumento del prezzo del petrolio.

4 – Calo dei consumi (maggiore del calo del reddito), più marcato al nord che nelle regioni centro e sud: mentre è rimasta invariata la spesa per alimentari e abitazioni, si è ridotta drasticamente quella legata agli spostamenti e alla socialità. I consumi finali hanno subìto una caduta pesante (-10,9%) mai registrata dal dopoguerra. Misurata sui consumi anche la forte incidenza della povertà assoluta manifestatasi soprattutto al Nord: riguarda oltre 2 milioni di famiglie (cresciuta dal 6,4% del 2019 al 7,7% del 2020) e più di 5,6 milioni di individui (passati dal 7,7% al 9,4%).

5 – Crescita del debito pubblico: per rendere possibili le misure di contrasto all’emergenza nel primo semestre del 2021, l’Unione europea ha sospeso i vincoli del Patto di Stabilità e Crescita dei paesi membri e questo ha impattato sul deficit pubblico in Italia, salito al 9,5% del Pil.

La crisi e il recupero: la congiuntura economica e sociale - Fonte: Istat
La crisi e il recupero: la congiuntura economica e sociale – Fonte: Istat

Scuola e università, la fatica della Dad

I dati più allarmanti riguardano il capitale umano che si conferma cruciale per la ripartenza, la cui formazione è stata fortemente impattata dalle disuguaglianze strutturali che si sono aggravate durante l’anno della pandemia.

La discontinuità didattica degli ultimi due anni scolastici ha minato la partecipazione agli studi delle categorie più vulnerabili, quelle con minore disponibilità di spesa e ha ampliato il gap con il confronto internazionale.
La didattica a distanza ha manifestato i suoi limiti. Secondo l’indagine Diario degli Italiani al Tempo del Covid tra marzo e giugno 2020, solo il 33,7% di bambini e ragazzi di 6-14 anni (1 milione e 700mila) ha fatto lezione tutti i giorni e con tutti gli insegnanti. Per arrivare a circa 2 milioni 630mila studenti (circa il 52%) includendo gli studenti che hanno dichiarato lezioni più costanti.

Particolarmente critica è stata la situazione degli 800mila studenti fino a 14 anni: circa 600mila non hanno seguito lezioni online tra marzo e giugno 2020 e a questi si aggiungono 205mila che hanno fatto lezioni con una parte minoritaria degli insegnanti e con compiti assegnati qualche volta o mai. La ripresa dell’anno scolastico 2020-2021 tra gli iscritti con meno di 14 anni è avvenuta solo a distanza per il 13,9%, in modalità mista per il 17,5% e solo in presenza per il 68% circa.

Ma l’Italia è in ritardo sull’istruzione rispetto agli altri paesi europeo soprattutto per la formazione universitaria: appena il 20,1% delle persone tra i 25-64 anni è laureato contro il 32,5% nei 27 paesi dell’Unione europea e, anche se guardiamo alle fasce più giovani (30-34 anni) siamo al penultimo posto nella graduatoria Ue27 per quota di laureati (27,8% contro 40% della media europea). Un gap con il resto d’Europa che riguarda anche le donne (34,3% di laureate in Italia contro 46,2% della Ue27).

Rimane bassa l’incidenza delle lauree in discipline scientifiche o Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics): solo 15 persone su mille tra i 20-29 anni sono laureate in queste discipline. L’Italia, con il 15,5 per mille di individui di 20-29 anni laureati Stem è sotto a Francia (26,6 per mille), Regno Unito (25,2 per mille) e Spagna (21,5 per mille).

Anche il tasso di abbandono degli studi preoccupa: il 13,1% dei giovani italiani di 18-24 anni ha abbandonato precocemente gli studi avendo raggiunto al massimo la licenza media (contro 10,1% in Ue27) e sono 2 milioni e 100mila i giovani di 15-29 anni non più inseriti in un percorso scolastico o formativo o impegnati in un’attività lavorativa (i cosiddetti Neet, Neither in Employment nor in Education and Training), pari al 23,3% dei giovani di questa fascia di età in Italia (in aumento rispetto al 22,1% del 2019) e a circa un quinto del totale dei Neet europei. La probabilità di essere Neet risente fortemente delle condizioni del contesto socio-economico, familiare e culturale.

Il capitale umano: divari e diseguaglianze - Fonte: Istat
Il capitale umano: divari e diseguaglianze – Fonte: Istat

Imprese e digitale, pochi professionisti Ict

Se guardiamo al tema della digitalizzazione nelle imprese, l’impegno preso dal Pnrr – che destina il 27% dei 235 miliardi di risorse in arrivo – rimarca una necessità impellente, condivisa anche a livello europeo dove le professioni Ict incidono per il 4,3% sull’occupazione totale nell’Ue27. In Italia l’incidenza è purtroppo minore (3,6%) anche se ormai il 53% degli addetti nelle aziende che hanno più di 10 dipendenti utilizza pc e internet quotidianamente (contro il 56% nell’Ue27). Una situazione non incoraggiante che continua a mettere l’Italia nelle retrovie dell’Europa.

La carenza di personale qualificato in Ict sottolinea il divario con il resto d’Europa: complessivamente nel 2020 il numero di specialisti Ict è aumentato in tutta Europa ma se rispetto al 2012 è cresciuto di circa il 77% in Francia, il 50% in Germania, il 35% in Spagna, in Italia è salito solo del 18%.

Come confermano anche i dati tratti dal Rapporto Il Digitale in Italia 2021, il cloud computing è stato una delle tecnologie trascinati del mercato digitale. Secondo Istat, tra il 2018 e il 2020 la quota di imprese che utilizzano servizi cloud è passata dal 23% al 59% ed è cresciuta dall’11% al 32% anche la parte di servizi evoluti in cloud, grazie anche agli incentivi fiscali contenuti nel piano Industria 4.0.

La fatturazione elettronica premia le aziende italiane (la usano il 95% delle realtà) così come sono in linea con gli altri paesi europei l’uso di sistemi IoT a controllo remoto, il ricorso a strumenti di intelligenza artificiale e di robotica.

Ma le aziende stanno digitalizzando? Sebbene ci sia stata una accelerazione digitale lo scorso anno proprio per garantire la continuità operativa delle imprese durante il lockdown, siano cresciuti i lavoratori in smart working e sia impennato l’e-commerce, il sistema produttivo italiano è ancora in ritardo nella diffusione del commercio elettronico e nell’uso di tecniche di analisi dei big data: gli analytics nel 2019 sono stati utilizzati dal 9% delle imprese italiane e spagnole con almeno 10 addetti, contro il 18% di realtà tedesche e il 22% di aziende francesi.
Se prima dell’emergenza sanitaria l’e-commerce era adottato in Italia dal 9,2% delle imprese con almeno 3 addetti (20% nel caso delle grandi) nel 2021 circa il 28% delle imprese prevede di utilizzare questo strumento come canale commerciale, con circa il 13% delle grandi imprese in pista.

Maturità tecnologica delle aziende

Istat raggruppa e fotografa in 5 profili le aziende italiane con almeno 10 addetti nel periodo pre-crisi a seconda del loro grado di digitalizzazione: le aziende non digitalizzate (22,5%), le asistematiche dotate di una infrastruttura di base e di almeno un software gestionale (22,2%), le costruttive con impiego di applicazioni avanzate e un investimento in sicurezza informatica (35,2%), le sperimentatrici con applicazioni digitali avanzate in alcuni processi aziendali e uso dei big data (17,1%) e, infine, le mature con applicazioni digitali estese a tutti i processi aziendali (3,0%).

Durante la crisi dovuta al Covid, solo il 4,1% delle imprese digitalmente mature ha ridimensionato le attività (percentuale più che doppia nelle altre categorie) dimostrando quanto la digitalizzazione avanzata abbia garantito una maggiore reattività.

Ma quali le strategie rilevanti per il futuro? La necessaria riorganizzazione dei processi e degli spazi di lavoro e una ulteriore spinta vero l’innovazione, “indirizzati alla produzione di nuovi beni, all’offerta di servizi innovativi o all’adozione di nuovi processi produttivi“. Nel corso del 2020 i lavoratori in smart working sono passati da meno del 5% a gennaio 2020 al 20% dei lavoratori totali a marzo 2020 (37% per le grandi imprese), segnalando la possibilità che il processo diventi irreversibile.

La crescita di offerta di contenuti digitali (newsletter, tutorial online, webinar, corsi a distanza, consulenze via Web e servizi simili) ha spinto da una parte le aziende che realizzano contenuti a cambiare modello di business (58% per le grandi imprese, 19% per le micro) dall’altra le imprese a perfezionare l’uso dei canali social, modalità di ingaggio che si prevede verrà utilizzata come modalità standard dal 60% delle aziende con oltre 250 addetti entro la fine del 2021.

 

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