Smart working, lavoro agile, flexible working, telework, new ways of working, comunque lo si chiami, il lavoro da remoto nell’ultimo periodo è entrato prepotentemente nelle nostre vite a seguito dell’emergenza sanitaria legata alla diffusione del Covid-19 costringendoci a rivedere le nostre abitudini di vita e di lavoro.

Il lockdown forzato ha impedito o comunque reso preferibile non raggiungere uffici e aziende e molti italiani per la prima volta si sono confrontati con lo smart working. Ma se in Italia lavorare da casa è una scoperta piuttosto recente, all’estero si tratta di una pratica ormai collaudata, infatti lo stesso Parlamento europeo con la risoluzione del 13 settembre 2016 ha affermato di sostenere il “lavoro agile”, mettendone in evidenza i benefici sociali e attestando l’importante equilibrio tra lavoro e vita privata per sostenere il rilancio demografico, preservare i sistemi di sicurezza sociale e promuovere il benessere e lo sviluppo delle persone e della società nel suo insieme.

Prima della pandemia Covid-19, la stima, in Italia, dei lavoratori in smart working   riguardava poco meno di 600.000 persone, con prevalente diffusione nelle grandi imprese (circa 60%) e molto meno nella pubblica amministrazione e nelle Pmi.

Diversamente dall’Italia in molti Paesi europei il ricorso allo smart working era una pratica ben diffusa anche prima dell’insorgere della pandemia. Il governo britannico già nel 2014 ha approvato la Flexible Working Regulation che consente ai dipendenti, con anzianità di servizio pari a 26 settimane, la possibilità di richiedere forme di lavoro flessibile alla propria azienda, la quale può rifiutarsi di concederlo solo adducendo motivazioni.

Sulla scia del modello inglese anche i Paesi Bassi nel 2016 hanno adottato il Flexible Working Act che disciplina il diritto dei lavoratori a richiedere forme di flessibilità rispetto ad orari e luoghi di lavoro.

In Belgio pur non essendoci specifiche normative fino al 2019, le prime iniziative di smart working nascevano già nel 2005 con la diffusione del concetto di new ways of working che fa riferimento all’adozione di nuove modalità di lavoro che permettono di aumentare soddisfazione e produttività dei lavoratori.

Infine anche la Francia con la riforma della Legge del Lavoro del 2017, e la Germania con il documento Arbeiten 4.0 adottato dal Ministro Federale del Lavoro, hanno intrapreso iniziative volte ad introdurre modelli di flessibilità.

Da fine febbraio 2020, lo smart working o lavoro agile, così come definito in Italia nella L. 81/2017, è divenuto strumento emergenziale per eccellenza con lo scopo di limitare la possibilità di contagio da Covid-19 ed evitare allo stesso tempo il blocco totale delle attività produttive in un momento già molto delicato per l’economia nazionale. Lo smart working, da strumento emergenziale, evolverà in buona pratica anche dopo che l’emergenza sanitaria sarà cessata?

Il lockdown ha infatti obbligato indistintamente tutti a confrontarsi con questa nuova modalità di lavoro da remoto ed ha fatto emergere non solo i benefici, ma criticità e limiti connessi alla gestione delle aziende nel nostro Paese.

La legge 81/2017 introducendo la disciplina del lavoro agile, aveva cercato di rispondere alle esigenze di maggiore flessibilità e miglior bilanciamento tra vita privata e attività lavorativa, prevedendo la possibilità di un accordo scritto tra datore di lavoro e singolo lavoratore che ne disciplinasse le modalità esplicative quali, per esempio, le modalità di esercizio del potere direttivo, di controllo e disciplinare del datore di lavoro, i tempi di riposo del lavoratore e le misure organizzative necessarie a garantire la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche.
Ma la cultura aziendale del nostro Paese, al momento dell’arrivo della pandemia, era ancora poco flessibile, basata sui più noti schemi della subordinazione, pertanto impreparata ad una trasformazione dell’organizzazione aziendale che lo smart working impone.

Diritto alla disconnessione
Diritto alla disconnessione e legislazioni nazionali (fonte: Eurofound, based on contributions by the Network of Eurofound Correspondents and the European Commission)

Infatti, la disciplina di tale forma di prestazione in via emergenziale, come prevista nella legislazione susseguitasi nel corso del 2020, contiene numerose deroghe rispetto alla previsione normativa del 2017, a partire dalla scelta unilaterale del datore di lavoro, qualora l’infrastruttura tecnologica e il settore lavorativo lo consentano, di prevedere forme di lavoro agile per tutti i propri subordinati senza un reale mutamento organizzativo, laddove la normativa ordinaria presupponeva una trasformazione del rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore frutto di uno specifico accordo individuale.

In tempi di emergenza da Covid-19 nell’ottica di snellire e velocizzare gli adempimenti a carico del datore di lavoro, si è reso possibile l’assolvimento degli obblighi di informativa sui rischi in via telematica, ricorrendo alla documentazione predisposta dall’Inail, derogando ulteriormente rispetto a quanto previsto dalla L. 81/2017. Ciò è stata sicuramente una buona soluzione nell’emergenza, ma non potrà costituire in futuro la regola.

Infatti da un lato non vi è dubbio che lo smart working comporti ingenti vantaggi ben compresi dalle imprese: in termini di produttività in quanto tale modello organizzativo, se sviluppato, potrebbe permettere un abbattimento dei costi di affitto degli uffici ma anche di utenze, mense aziendali, buoni pasto e infrastrutture tecnologiche.

Dall’altro deve fare i conti con le principali criticità riscontrate dalle aziende impreparate sotto il profilo organizzativo rimasto ancora inalterato, di fatto, ai tempi ante pandemia, che ha semplicemente trasformato lo smart working in “lavoro da casa”.

Significativi sono i problemi rilevati in questa fase emergenziale e che tuttora permangono in parte strutturali delle aziende ed in parte ad esse estranee:

  • connessione inadeguata (assenza di banda larga) tale rendere vano l’accesso remoto alle risorse;
  • carenza di strumenti adeguati per operare ed interagire da remoto (ivi compresa la gestione della procedura telematica per la comunicazione dei lavoratori ed il loro limitato e/o assente accesso alle risorse aziendali con  archivi ancora cartacei o accessibili solo da rete aziendale);
  • protezione del patrimonio immateriale aziendale su sistemi informatici non aziendali e pertanto non idonei a tutelarlo in assenza di espresse policy aziendali;
  • assenza di una moderna cultura manageriale per la valorizzazione dello smart working;
  • quantificazione della retribuzione del lavoro straordinario (ancorata alla prestazione effettuata in precisi orari d’ufficio rispetto a quella basata sulla performance)  e all’opportunità di garantire al dipendente un rimborso delle spese per la connessione Internet;
  • responsabilità circa la salute e la sicurezza sul lavoro, in assenza di espresse previsioni aziendali per indicare come realizzare una postazione di lavoro idonea “at home”, evitare una prolungata presenza al computer effettuando brevi pause, ed il conseguente diritto alla disconnessione  indispensabile per evitare il rischio di sovraccarico lavorativo (burn-out);
  • progressiva perdita di contatto con colleghi, clienti.

In Europa le criticità vissute durante il periodo di emergenza non si discostano molto dallo scenario italiano, soprattutto rispetto al problema del diritto alla disconnessione. In merito a ciò la Confederazione europea dei sindacati ha chiesto una più incisiva regolamentazione della normativa che garantisse il rispetto di tale diritto dei lavoratori. Ed infatti è proprio sul diritto alla disconnessione che si concentra l’attenzione del Parlamento europeo, che starebbe studiando una direttiva specifica applicabile a chiunque utilizzi strumenti digitali. Gli europarlamentari stanno infatti discutendo sull’opportunità di adottare standard comuni che garantiscano protezione ai lavoratori del mondo digitale, stante il labile confine tra lavoro e vita privata derivante dallo smart working.

Da un sondaggio realizzato dall’European Foundation for the Improvement of Living and Working Condition, difatti emergerebbe che i lavoratori che svolgono le proprie prestazioni da casa hanno maggiore probabilità di lavorare almeno 48 ore a settimana in più rispetto a coloro che lavorano in azienda oltre ad una maggiore probabilità di lavorare anche nel tempo libero. Quindi al fine di limitare tale problema, a livello europeo è stato negoziato un accordo con i datori di lavoro in merito alla regolamentazione dello smart working al fine di meglio conciliare vita lavorativa e sociale dei lavoratori.

Di fatto allo stato, poche aziende sono riuscite attraversi accordi collettivi o individuali a regolare in modo omogeneo l’attività in smart working dei dipendenti. Pertanto se, come sembra nella realtà, lo smart working dovesse divenire più strutturale, sarebbe necessario intervenire con più incisività sulle criticità che “l’esperimento” dell’ultimo anno derivato dalla pandemia ha evidenziato. E’ un percorso di crescita che coinvolge più interlocutori: aziende, dipendenti, legislatore.

Sarebbe quindi opportuno che anche un intervento  del legislatore in merito a d alcune delle criticità sopra evidenziate intervenisse in maniera chiara nel disciplinare i problemi emersi, fra cui ad esempio, il diritto alla disconnessione – stante l’impossibilità di delineare in maniera netta il confine tra vita privata e lavoro – o altri di natura più pratica, quale possibili contributi legati all’utilizzo intensivo di risorse private (utilities, connettività, etc.), ed il diritto ai buoni pasto di cui si è molto discusso in questo periodo in ragione di alcune decisioni giurisprudenziali che ne hanno escluso la natura retributiva a favore di quella assistenziale collegata al rapporto di lavoro in modo occasionale.

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